Il pellegrinaggio nasce con un carattere “penitenziale”, nei primi secoli dell’era cristiana. «Faceva parte del processo di conversione: per liberarsi dalle ansie e dalle tensioni del mondo si partiva verso Roma oppure Gerusalemme, dove si viveva da “stranieri”, da “esuli” (secondo l’etimologia del termine “pellegrino” [da per ager, andare per campi ndr])» (Wikipedia). A chi è recluso è interdetta proprio la libertà di movimento. In carcere si cammina per ore e ore, chilometri e chilometri, nel perimetro di aree grige. Il pellegrinaggio interiore e penitenziale, invece, ci è addirittura richiesto. È la nostra condizione: viviamo da “stranieri” e da “esuli” in questo luogo che non ci appartiene e al quale non apparteniamo, senza altra meta che non sia noi stessi.
a cura della Redazione di “Ne vale la pena”
Alla ricerca della meta
Soli e pensosi noi qui stiamo!
DIETRO LE SBARRE
Meglio soli
Oltre alla privazione della libertà, ciò che rende così tormentoso il carcere è la convivenza forzata con le altre persone recluse, che fino al giorno prima non si conoscevano nemmeno.