Lo diceva anche Anselmo!
di Dino Dozzi
Direttore di MC
Mi hanno incuriosito sia il titolo che l’autore, e l’ho letto con grande interesse. Riassumo qui quanto mi ha colpito e qualche riflessione conseguente. Si tratta di Josef De Kesel, Cristiani in un mondo che non lo è più. La fede nella società moderna, Libreria Editrice Vaticana, 2023. Certo, ci si potrebbe affidare alla divina Provvidenza e lasciare tranquillamente il presente e il futuro alla sua gestione. Ma un amico ama ripetere simpaticamente: «Come diceva sant’Anselmo d’Aosta: usate la testa che Dio ve l’ha data apposta!». E dunque – non solo per la rima da cortile! – vediamo di usarla un po’ la testa. Come ha fatto questo cardinale, arcivescovo emerito di Bruxelles-Malines, biblista, teologo e pastore in uno dei paesi culturalmente più vivaci d’Europa.
Si parte da una constatazione sotto gli occhi di tutti: la cultura occidentale ha smesso di essere religiosa e quindi la Chiesa non vive più in un ambiente religioso e cristiano. Da qui la domanda del titolo: si può essere cristiani in un mondo che non lo è più? La risposta che i cristiani danno è spesso apologetica, vittimista e demonizzante. La risposta del nostro cardinale è che questa perdita della fisionomia culturale cristiana non è l’inizio della fine, ma un kairòs, una bella occasione da non lasciarsi sfuggire.
La cultura è il modo con cui l’uomo abita il mondo. In una cultura religiosa, ogni aspetto della vita è condizionato dal pensiero religioso; la religione è il quadro di riferimento in cui si pensa e si agisce. Fino a un secolo fa questo era il nostro mondo. Nel mondo secolarizzato di oggi la società è pluralistica e multireligiosa. La cultura di oggi afferma che la religione è qualcosa di facoltativo, è una scelta personale e libera. Dobbiamo anche noi riconoscere subito che la libertà non è nemica della fede, ma sua condizione imprescindibile. La cultura moderna offre un contesto che ci permette di vivere insieme rispettando la libertà dell’altro, e la libertà religiosa implica il diritto di non essere credente.
La Lettera a Diogneto della fine del II secolo descrive bene la situazione del cristiano nella società antica: ben integrato, ma altrettanto fedele alla sua fede e al suo credo. Vale anche per il nostro oggi. C’è separazione tra Stato e Chiesa, ma non c’è separazione tra cristiano e cittadino. Inizialmente il cristianesimo si è opposto con forza all’avvento della modernità. Fortunatamente il concilio Vaticano II ha accettato la modernità. E Papa Francesco va ripetendo che la Chiesa non è una dogana. Ci sono diversi gradi e diverse modalità di appartenenza alla Chiesa, che deve aprire le porte a tutti e che deve uscire per andare a vedere come si vive e si vede Dio dalle periferie sociali ed esistenziali.
Quello che minaccia la nostra cultura moderna non è il pluralismo ma l’individualismo e l’indifferenza. Anche un non credente può dare un senso alla propria vita e impegnarsi per una società più giusta e umana: le religioni non hanno il monopolio del senso della vita e dell’impegno sociale, pur costituendone una fonte preziosa. È possibile abusare della religione e strumentalizzarla, ma bisogna riconoscere che essa può essere strumento molto utile di umanizzazione per tutti. Il vero progresso – ripeteva Paolo VI – è quello integrale, di ogni uomo e di tutto l’uomo.
Quale significato può avere la presenza della Chiesa in paesi dove le possibilità pastorali sono quasi nulle? Far vedere che ci sono altre vie che conducono a Dio. Il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune di Abu Dhabi parla della provvidenzialità del pluralismo religioso. Il pericolo non è l’Islam in sé, il pericolo è che l’Islam diventi l’unica opzione religiosa. Ma questo vale anche per il cristianesimo.
La Chiesa non ha altra scelta che collocarsi nel modo corretto nella nostra società secolarizzata e pluralista, puntando sulla libertà e sull’amore. «La Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione», ricordava Benedetto XVI. Non dimenticando mai che la Chiesa non esiste per sé stessa, ma per il mondo. In un contesto in cui la religione ha valenza culturale, c’è competizione tra le religioni, ma nessuna pastorale è degna di questo nome se non si fonda sul rispetto dell’altro e della sua libertà. La vera domanda è se la Chiesa può attrarre nuovi membri: il problema non è essere pochi, ma essere insignificanti.
La domanda seria non è se la Chiesa debba essere missionaria, ma come debba esserlo. La nostra missione non può essere quella di far scomparire le altre religioni e concezioni della vita. Il rispetto per gli altri, per la loro fede e convinzione, e il dialogo interreligioso fortunatamente sono diventati per la Chiesa valori fondamentali. I monaci di Tibhirine sono un bell’esempio per la Chiesa nel mondo di oggi. Riprendono la modalità suggerita da san Francesco d’Assisi nel Medioevo: anche in paesi musulmani, vivere da fratelli minori di tutti, oranti in mezzo ad altri oranti. Oggi le religioni sono chiamate a incontrarsi e apprezzarsi a vicenda (Giovanni Paolo II). La prima lettera di Giovanni (4,7-8) ci ricorda il grande criterio per verificare la conoscenza di Dio: chi ama conosce Dio, chi non ama non conosce Dio. Lo Spirito opera all’interno della Chiesa, ma anche in tutta la famiglia umana nel mondo intero.
San Paolo chiedeva a Dio di liberarlo da quella spina nella carne e di spianargli la strada dell’evangelizzazione; si sente rispondere dal Signore: «Ti basta la mia grazia: la mia forza si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). Vale anche per la Chiesa di oggi, chiamata a vivere in una cultura secolarizzata e multireligiosa. Dio è capace di fare del tempo presente un tempo di grazia. A condizione che accettiamo volentieri la nostra debolezza in un mondo laico e pluralista, mettendola umilmente a disposizione di Dio e condividendola fraternamente con gli altri pellegrini dell’Assoluto. Poco importa se provenienti da Marrakesh o da Aosta, ma usando la testa e il cuore per riconoscerci nella comune umanità, dono dell’unico Dio creatore e Padre di tutti.