Il dialogo interreligioso è una condizione necessaria per la pace nel mondo, e pertanto è un dovere per i cristiani, come per le altre comunità religiose, come ci ricorda papa Francesco.

a cura di Barbara Bonfiglioli

 Il cuore nell’incontro

Per un dialogo sincero, vero, coraggioso, lungimirante 

di Brunetto Salvarani
teologo, saggista e critico letterario

 «La realtà è superiore all’idea» è uno dei principi che – com’è noto – guidano il pensiero di papa Francesco.

Ne parla, per la prima volta, nell’esortazione del 2013 Evangelii gaudium, al numero 231, mentre affronta gli obiettivi, a lui particolarmente cari, del bene comune e della pace sociale, inserendolo fra i criteri per un discernimento di scelte capaci di favorire un’ordinata vita sociale ed ecclesiale: «La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà». L’invito, dunque, è a vigilare attentamente su quelle forme di idealismo che – pur talvolta generose e mosse da buone intenzioni, ma non per questo innocue – rischiano di mortificare il reale.

 Il bello dei plurali

Esattamente come “la realtà è superiore all’idea”, così la prassi dialogica – dal dialogo della vita quotidiana a quello istituzionale e di vertice a quello che sgorga dai sentieri della spiritualità – è sempre superiore a ogni sua pur superba teorizzazione. A qualsiasi (pur necessaria) teologia del dialogo. Per dirla con la frase clou del film di Ermanno Olmi del 2007 Centochiodi, messa in bocca al protagonista, un professore di religione in crisi esistenziale e intellettuale, «tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico». D’altra parte, non è casuale che nel primo documento del magistero cattolico dedicato a questo argomento, l’enciclica di papa Paolo VI Ecclesiam suam – pubblicata in pieno Vaticano II, il 6 agosto 1964 – il termine dialogo non compaia nella sua forma latina più classica e aulica (dialogus), ma nell’accezione più dimessa e quotidiana (colloquium).
Ecco perché occuparsi di dialogo interreligioso rappresenta sempre un azzardo, una scommessa da farsi eppure mai scontata. Tanto più in una stagione quanto mai indecifrabile e incerta, segnata da un evidente cambiamento d’epoca, come ci siamo abituati a dire: ancora largamente da interpretare, ma certo denso di chiaroscuri. Da parte sua, Jorge Mario Bergoglio, eletto vescovo di Roma il 13 marzo 2013 e giuntovi quasi dalla fine del mondo, da papa ha scelto da subito di mettere al centro dell’autocoscienza ecclesiale l’esperienza vitale della relazione con l’alterità, in forme e modalità che – senza mai porre in discussione la filiera magisteriale che lo precede, a partire da Giovanni XXIII e dal Vaticano II, pur essendo il primo pontefice a non avervi partecipato direttamente – si presentano come innovative e foriere di sviluppi inattesi.
Fino ad aprire, nel Documento di Abu Dhabi (4 febbraio 2019), significativamente co-firmato con il grande imam del Cairo Ahmad Al-Tayyeb, a un modello di teologia del dialogo che fino a qualche tempo fa sembrava largamente improponibile nel contesto della cattolicità: quello pluralista. Ecco il passaggio decisivo: «Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano».
Frasi, a dire il vero, difficili da fraintendere, confermate di fatto dalla successiva enciclica Fratelli tutti (2020), che segnalano in ogni caso la portata delle sfide poste dai sempre più impetuosi processi di pluralizzazione dei riferimenti religiosi in atto. Sfide complesse che, probabilmente, stiamo ancora appena intravvedendo… Da parte mia, penso al lavoro fondamentale, eppure a lungo misconosciuto o incompreso nella loro Chiesa, di teologi emblematici come il belga Jacques Dupuis e lo spagnolo di origine indiane Raimon Panikkar, che si sono mossi coraggiosamente in quella direzione.
È lecito affermare che il dialogo interreligioso sia oggi, ormai, da una parte, una responsabilità ecclesiale ineludibile; ma dall’altra anche un’autentica necessità civile e politica. Come ha ripetuto più volte, nel suo prezioso magistero, il cardinale Carlo M. Martini, «il pluralismo religioso è oggi una sfida per tutte le grandi fedi, soprattutto per quelle che si definiscono come vie universali e definitive di salvezza», tanto che, «se non si vuole giungere a nuovi scontri, occorrerà promuovere con forza un serio e corretto dialogo interreligioso». Fino all’invito, che Martini recuperò da Norberto Bobbio, ad abituarci a distinguere, più che tra uomini credenti e non credenti, come si fa di solito, tra pensanti e non pensanti, al di là della fede dichiarata: «ovvero tra coloro che riflettono sui vari perché e gli indifferenti che non riflettono».

 A servizio dell’umanità

Ecco il motivo per cui il cristianesimo, e la sua pretesa universale, andrebbero ripensati in relazione alle altre fedi, e nel contesto del pluralismo culturale e religioso che abita il tempo attuale (e abiterà ancor più quello futuro). Come aveva intuito, oltre tre decenni fa, il teologo svizzero Hans Küng con il suo Progetto per un ethos mondiale, scritto programmatico in vista di una teologia ecumenica per la pace, basato su una tesi destinata a divenire famosa ben oltre i classici circuiti teologici: «Non vi può essere convivenza umana senza un ethos mondiale delle nazioni; non vi può essere pace tra le nazioni senza pace tra le religioni; non vi può essere pace tra le religioni se non c’è dialogo tra le religioni». In altri termini: la teologia non può che essere al servizio dell’umanità; ma una teologia al servizio dell’umanità – non una teologia da tavolino – è chiamata a porsi al servizio dell’intesa e della collaborazione tra le religioni, favorendo e praticando il dialogo interreligioso in vista della fondazione di un ethos mondiale.
Mai come in questi anni gravati da guerre catastrofiche, dagli effetti disastrosi della pandemia e da continui cataclismi ambientali, probabilmente, ce ne stiamo accorgendo (o almeno, ce ne dovremmo accorgere). Personalmente, sono convinto che occorra accelerare il più possibile in questa direzione, e soprattutto verso una seria educazione al dialogo, in primo luogo al dialogo interreligioso, la più diffusa e capillare possibile. In cui la provocazione, inoltre  – come sostiene il teologo indiano Felix Wilfred, scomparso pochi mesi fa – sarà quella di diventare cristiani, più che semplicemente esserlo: «diventare cristiani interreligiosamente è un’esperienza arricchente e stimolante». Sarà necessario, al riguardo, attrezzarsi con una teologia inquieta, consapevole di essere incompleta eppure capace di immaginazione: queste le tre parole chiave consegnate da papa Francesco alla redazione de La Civiltà Cattolica il 9 febbraio 2017, in relazione a un servizio capace di «possedere lo sguardo di Cristo sul mondo, di trasmetterlo e testimoniarlo». Perché «la sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita. Ma bisogna penetrare l’ambiguità, bisogna entrarci, come ha fatto il Signore Gesù assumendo la nostra carne». E la stessa cosa vale per il dialogo fra le religioni.

 


Dell’Autore segnaliamo:
Un percorso difficile anche per Dio. Sul futuro del dialogo cristiano-ebraico
con la prefazione di mons. Derio Olivero vescovo di Pinerolo
Effatà Editrice, 2024, pp. 176