Un’indagine americana ha preso in considerazione 170 figli di Pastori protestanti, cercando di valutare se e quanto l’immagine di Dio fornita dai genitori ai figli, finisse per aiutare o meno la crescita dei figli. E il risultato sembra davvero interessante.
di Gilberto Borghi, pedagogista, della Redazione di MC
Dio è come cresci
La nostra fede e l’annuncio ricevuto
«La genitorialità dei Pastori protestanti è autorevole, ma non autoritaria, caratterizzata dall’equilibrio tra calore e struttura, empatia e direzionalità di vita;
fornisce ai figli l'impalcatura emotiva necessaria per affrontare le complessità del loro ambiente. Questo stile genitoriale è presente soprattutto in quei Pastori che promuovono un’immagine di Dio amorevole, perdonante, che promuove la vita piuttosto che il giudizio. Al contrario, stili autoritari o permissivi possono amplificare le vulnerabilità dei figli, creando una discrepanza tra il loro mondo interno e la realtà esterna, soprattutto quando veicolano immagini di Dio o troppo “giudicante” e rigido o troppo “permissivo” fino anche all’assenza del concetto di peccato. Questa scoperta dipinge un quadro vivido: lo stile genitoriale agisce come una lente, chiarendo o distorcendo l'impatto dell'immagine di Dio sul concetto di sé del figli».
Questa lunga citazione proviene da una indagine fatta da agosto a dicembre 2024, dalla dott.ssa Dedra Mikesha Forbes, della Liberty University, di Lynchburg in Virginia, poi divenuta la sua tesi di laurea in Scienze dell’educazione.
Dio, Giobbe, i ragazzi
Intuitivamente era una correlazione già immaginata, per chi come me si occupa di educazione anche in ambito religioso. Ma vederlo confermato con dati statistici consolida ancora di più come la qualità della relazione vissuta durante la formazione catechistica sia determinante per gli esiti non solo religiosi spirituali dei formandi, ma anche del loro equilibrio psicoesistenziale.
E mi è tornata in mente una situazione didattica di qualche anno fa, quando ancora insegnavo religione. Seconda di un liceo. Sveglia e anche partecipe. Sto mostrando loro i significati dei nomi che nella nostra tradizione attribuiamo al maligno. Per parlare dell’oppositore, di satana, racconto la storia di Giobbe. La prima parte, da una slide, la leggo quasi in forma “animata”. Per la stragrande maggioranza di loro è un’autentica primizia: non hanno mai sentito parlare di Giobbe e mai gli è stata raccontata la sua storia. Poi proseguo raccontandola io, in modo che il linguaggio sia più vicino al loro, ma senza tradire il senso del racconto.
Quando, per la terza volta, Dio e satana si sfidano sull’autenticità dell’amore di Giobbe per il Signore, Gloria interviene: «Sì, ma prof., ma che Dio è quello che permette una scommessa così sulla testa di questo poveretto; per un suo sfizio permette a satana di rendere la vita di Giobbe un inferno. Ma non è possibile! Un Dio così è meglio che non esista. È uno dei motivi per cui non credo: Dio non può essere così!».
Dal fondo Antonella ribatte: «Gloria, guarda che il cristianesimo non è così. Dio non mette alla prova le persone, ma anzi gli vuole bene e condivide con loro il dolore che provano». Dalla prima fila, nell’angolo di sinistra, Valentina si gira e dice, quasi solennemente: «No, Anto, Dio mette alla prova le persone per vedere se hanno fede. E con Giobbe ha fatto lo stesso». La classe si ribella e c’è un momento di attacco a Valentina. «Ragazzi, no, un momento», intervengo, «vi ho sempre detto che ognuno ha diritto ad esprimere la propria idea senza essere giudicato, aggredito o insultato! Chiaro? Perciò credo che dobbiate delle scusa a Valentina. Non condivido la sua idea, ma non vi permetto di comportarvi così!».
«Ma come prof., non condivide la mia idea?» Valentina, invece che fissarsi sulla reazione della classe contro di lei, quasi sconcertata mi rivolge questa domanda. Sento che è sincera e le dico: «Vale, sei stupita di quello che ho detto?». «Sì prof. lei insegna religione cattolica, come fa a dire che non condivide la mia idea?». «Vale, capisco ti possa stupire, ma sono convinto che se parliamo di cristianesimo, Gloria faccia bene ad essere indignata dall’immagine di Dio che la storia di Giobbe sembra mostrarci. E forse è Antonella ad aver indicato un’immagine di Dio più centrata sul messaggio di Gesù Cristo».
Un genere letterario e un approccio di lettura
Gloria allora riprende: «Ma, prof, il libro di Giobbe fa parte della Bibbia e come fa lei allora a dire che Dio non mette alla prova le persone?». «Infatti, come fa?», aggiunge Valentina. «Ok, ragazzi, qui dobbiamo fermarci un attimo anche se il centro del nostro discorso oggi era un altro. Quando vogliamo capire la Bibbia da cristiani dovremmo attenerci a due grandi regole. Prima: la Bibbia è scritta con tantissimi generi letterari diversi. Sapete cos’è un genere letterario?». La classe dichiara in coro che ne hanno parlato con la prof. di italiano. «Bene», riprendo, «allora dovreste sapere che se un brano è scritto in un genere letterario “leggenda didattica”, come quello di Giobbe, non siamo autorizzati a interpretarlo come “racconto reale”. Secondo: per un cristiano la Bibbia va letta a rovescio, cioè prima il Nuovo Testamento e solo dopo l’Antico Testamento. Questo perché solo a partire dal Nuovo Testamento possiamo capire davvero l’Antico Testamento. Allora, se applico queste due cose alla questione sollevata da Gloria, nel Nuovo Testamento Dio non ha nessun interesse a “prendersi gioco” e a “mettere alla prova” gli uomini. Nel Nuovo Testamento Dio fa esattamente ciò che dice Antonella. Ci ama pazzescamente tanto da prendere lui su di sé il nostro dolore e portarlo insieme a noi. Altro che provare a metterci in buca, offrendoci la tentazione di peccare. Così, allora, la storia di Giobbe sta nella Bibbia non tanto ad indicarci cosa fa Dio “sopra le nostre teste”, ma vuole indicare come e cosa può fare l’uomo di fronte al dolore e al male, come possa reagire: accettando, arrabbiandosi, accusando Dio, accusando sé stesso, o semplicemente riconoscendo che non abbiamo una risposta al perché del male. Sappiamo solo che Dio lo condivide con noi».
Gloria è rimasta soddisfatta di questa risposta, Antonella ha semplicemente annuito, mentre Valentina è rimasta sorpresa e un po’ irritata. Ma qui viene il bello. Con un po’ di informazioni, chieste a loro e ad alcuni catechisti amici, scopro quali sono stati i percorsi di catechesi che queste tre ragazze hanno alle spalle.
La catechesi pregressa
Gloria ha partecipato alla catechesi “classica” della sua parrocchia, come tanti, dalla prima elementare fino alla cresima. Ma una volta arrivata lì ha deciso di non frequentare più quell’ambiente e come tanti ha vissuto la cresima come il sacramento dell’addio. Ma le sue domande profonde sono rimaste aperte, tanto che in classe non è la prima volta che ci prova a trovare risposte che le “tornino” di più di ciò che le è stato consegnato in parrocchia.
Antonella ha partecipato alla Catechesi del Buon Pastore nella sua parrocchia, quasi sempre con grande entusiasmo e ha una riconoscenza enorme verso le sue due catechiste, di cui è diventata davvero amica. Ha fatto la comunione e la cresima quando lo ha scelto lei, e adesso frequenta con piacere il gruppo giovanissimi, dove, a detta sua, fanno poca teoria, molto “servizio” e parecchia preghiera. E le sue catechiste confermano, soprattutto la sensazione di una Antonella serena, solida, che ha ancora domande aperte, ma ha deciso chiaramente dove cercherà queste risposte.
Valentina ha fatto la comunione a 8 anni, prima dei suoi coetanei, perché figlia della capogruppo dei catechisti (mia cara amica) della sua parrocchia. In casa dicono la preghiera sempre prima di mangiare e non è ammesso non andare a messa la domenica, e fa la comunione solo dopo essersi confessata, sia lei che suo fratello maggiore. La madre però ha la sensazione che Valentina sia un po’ rigida nelle sue posizioni, ma imputa questo all’età e al carattere molto determinato della figlia.
Diversi percorsi, diverse esperienze relazionali, diverse emozioni vissute e diverse immagini di Dio. Credo che pastoralmente questo ci dia una chiara indicazione di dove si debba lavorare per rendere le nostre catechesi più efficaci davvero, sia sul piano spirituale che umano.