Uno dei grandi problemi pastorali della celebrazione della messa ho l’impressione che sia l’assenza del corpo. Eppure, lì noi celebriamo proprio il dono di un corpo, quello di Cristo per noi, e nutrendoci di Lui ci impegniamo così a donare il nostro, come Lui. Non è una contraddizione? A partire dall’esperienza concreta della veglia pasquale, qualche riflessione sul modo e sul senso delle nostre celebrazioni liturgiche.
di Gilberto Borghi
Se la liturgia è scorporata
La veglia pasquale non è sveglia
La contraddizione me l’ha svelata Veronica, 8 anni, con l’ingenuità disarmante di una bambina.
Quando nel bel mezzo della veglia di pasqua mi fulmina con la sua domanda: «Ma se è risorto, perché non si vede?»; finalmente mi fa percepire una strana irritazione che ho dentro fin dall’inizio della celebrazione.
Mimare la gioia e spiegare la spiegazione
Alle 21,30 sono iniziate le prove dei canti, con mezza chiesa vuota. Il prete insiste più volte sul senso e sul modo del canto: «È un canto di gioia, non potete cantarlo come se aveste il mal di pancia… No!! Un po’ di gioia... metteteci dentro un po’ di gioia». Ma l’assemblea, nonostante la buona volontà, mostra di non “ritrovarsi” con quei canti… e che la gioia non si può “mimare”. «Eh, certo che chi non sa il gregoriano non sa cantare bene queste cose…» chiosa il prete, ma la sua scelta dei canti non sembra proprio adatta a quel tipo di assemblea.
Ma l’irritazione sale quando, alle 22 precise, inizia la veglia. Un commentatore introduce la liturgia con una spiegazione che è un trattato di teologia di circa 10 minuti. L’intenzione è quella di far comprendere i segni di quella liturgia. L’effetto che ha è quello di spegnere l’attrattiva emozionale per chi invece, vivendoli direttamente, si sarebbe potuto stupire e interrogare su quei segni. Che invece così vengono vissuti come già scontati. E infatti, durante la processione della luce, il prete richiama due volte ad alta voce: «Non accendete le candele con gli accendini, se no il senso si perde!!». Chissà perché i primi cristiani non spiegavano i segni e i loro misteri ai catecumeni, prima che questi li avessero vissuti direttamente nella celebrazione? Noi facciamo il rovescio e pensiamo sia giusto.
E invece ritrovo il “prima di tutto bisogna capire” all’inizio della liturgia della parola. Ancora il commentatore, che cerca di riassumere il senso delle nove letture. Senso che viene poi ripetuto esattamente uguale dal celebrante, nella esortazione prevista dal rito prima della prima lettura. Siamo al paradosso: la spiegazione della spiegazione. Poi le letture. Lette con uno stile molto controllato, quasi a voler lasciar fuori proprio le emozioni, che invece in quei testi sarebbero abbondantissime. E infatti, a metà di esse Adriana, la madre di Veronica, mi dice nel suo splendido napoletano: «Ma il Vangelo che r’è? Nà litania passaguai?». Che dice tutta l’emozione noiosa e affaticata che aleggia nell’assemblea durante la lettura. Il bello è che la liturgia prevederebbe invece una reazione emozionale dell’assemblea, invitando a rispondere alle singole lettura con il canto dei salmi. Ma nemmeno questo riesce a far “salire il tono”, perché tutti salmodiati in rettotono! E con la incredibile scelta del prete di non cantare l’unico salmo che la liturgia impone di cantare: il cantico di esultanza dell’esodo!
Parole, parole, parole
Però l’apice della stonatura emotiva arriva al gloria. «Ecco, fratelli – introduce il prete – ci siamo preparati per 40 giorni per esplodere in questo canto di gioia …». E attacca il gloria in latino sul quarto modo gregoriano, che nessuno canta, sia perché nel foglietto di ben 36 pagine stampate al computer non c’è, sia perché la melodia è davvero complessa. E pure le luci accese d’improvviso e le campane slegate a festa non riescono a dare il senso della gioia. Cosi, mentre il sacrista accende (con l’accendino!!) le candele dell’altare, Veronica se ne esce con la sua domanda innocente che svela la contraddizione: «Ma se è risorto, perché non si vede?». Che non è solo la domanda sull’impossibilità fisica di vedere ora Gesù risorto. Ma soprattutto si chiede, e ci chiede, come mai non si vede nei nostri volti e nei nostri corpi che Gesù è risorto. Aveva ragione Nietzsche: «Diventerò cristiano quando vedrò i cristiani con facce da salvati» o ancora meglio Gandhi: «Diventerò cristiano quando incontrerò un cristiano che si riconosce senza dire una parola».
Ho tenuto i tempi di quella veglia. Due ore esatte dall’inizio alla fine della liturgia della parola. E 19 minuti dall’inizio della liturgia eucaristica all’uscita della Chiesa. Anche i tempi hanno un senso. Una liturgia tutta parole finisce per nascondere l’effetto emotivo della Parola fatta carne, morta e risorta. Celebriamo un fatto, storico e fisico: un corpo risorto. Eppure il nostro corpo resta quasi passivo e immobile per oltre due ore. Solo al Padre nostro, con quel gesto della mani aperte, l’assemblea sembra risvegliarsi fisicamente, che però sembra come strappato dall’assemblea al ferreo controllo del celebrante. E poi il segno della pace, in cui appare il primo movimento fisico, di incontro e di sorriso.Ma come? Proprio in una liturgia che sarebbe tutta piena di segni e di movimento riusciamo a mettere in secondo piano ancora una volta il vissuto sensoriale ed emotivo. E a voler a tutti costi far passare un mistero, che ci sovrasta infinitamente, attraverso la nostra limitata comprensione razionale e consapevole. Invece di essere chiamati a viverlo, “tirati” dentro al mistero dall’emozione e dalla sorpresa dei gesti e delle azioni, tipiche di questa notte! All’uscita dalla Chiesa Adriana mi dice: «L’unico momento che mi ha commosso è stato il canto della comunione». E infatti lì l’assemblea si è “sentita” e si è “accesa”. Un canto evidentemente conosciuto e già “vissuto” altre volte, che ha permesso di esprimere il desiderio di ringraziamento e di abbandono a Dio in modo anche emotivo. Finalmente!
Per amore non per altro
Giovanni Paolo II indicava nella sessualità la liturgia del corpo. Allora, se non sembra troppo audace, o moralisticamente scandaloso questo accostamento, si potrebbe seguire la Bibbia in Ef 5, 30-32 e pensare che il modo di vivere la liturgia per la Chiesa sia come il modo di vivere la sessualità per due sposi. La liturgia è la sessualità della Chiesa. Entrambe infatti hanno il valore delle cose fatte per gratuità, per amore e non per altro. Non sono uno strumento per raggiungere un fine, diverso dallo strumento stesso. Ma il loro fine è nell’atto stesso che le realizza: l’amore, la bellezza e il piacere che si prova mentre li si vive. E proprio per questo sono “culmine”, l’una della vita ecclesiale, l’altra della vita coniugale.
Spezzano l’ordinarietà delle cose “da fare”, e aprono quelle “da vivere”. E per questa apertura alla vita, che ci afferra in queste esperienze e ci sorpassa, siamo portati ad uscire da esse diversi da come siamo entrati. E per questo sono “fonte”: l’una della gioia pasquale che rende possibile l’inizio della nuova vita in Cristo, l’altra della possibilità dell’origine di una nuova vita reale.
Non è un caso quindi che l’atto eucaristico supremo di Gesù si esprima con la stessa frase che un marito e una moglie vivono nell’atto d’amore: «Questo è il mio corpo dato per te». In questa frase sta il cuore della vita di fede. Non dice questo è il mio spirito, la mia anima, la mia forza. Dice questo è il mio corpo. E va inteso nel contesto biblico in cui la frase nasce, cioè questo è il mio tutto, la mia persona totale, vista dalla prospettiva fisica, non solo una parte di me. Ecco allora perché, se la gioia pasquale non erompe anche sul piano emozionale e fisico, diventando anche piacere, resta il più grande tradimento di Gesù, perché Lui ha voluto proprio la corposità e la concretezza di un corpo vivo per dirci e darci la sua stessa vita. Spiritualizzare la gioia pasquale sarebbe una riduzione che svilisce il cuore dello stesso mistero.
La Chiesa sa che si celebra per intero o non si celebra, cioè che la liturgia va vissuta per prima cosa con i sensi. Infatti è costituita da sempre di luci, di immagini sacre, di musica, di parole, di baci e abbracci, di incenso, di pane-corpo da mangiare e vino-sangue da bere, di gesti altamente simbolici. Perché la liturgia deve parlare ai cinque sensi, e farli vivere e rivivere tutti.
Dell’Autore segnaliamo:
GILBERTO BORGHI
Credere con il corpo.
I giovani e la fede
nell’epoca della realtà
virtual
EDB, Bologna 2014,
pp.168