Quali caratteri dovrebbe avere una persona che sia chiamata oggi a ricoprire ruoli pastorali? Domanda lanciata da un prete, qualche sera fa, in un incontro sinodale della mia diocesi. Una sola risposta tra i presenti mi ha colpito: chi ama è ancora in grado di evangelizzare. Prima anche della perfetta adesione a tutti i contenuti della fede. Ma l’amore, per me, è inteso come una capacità concreta, corposa, reale.
di Gilberto Borghi
L’operatore com’è?
Tre indicazioni operative e quattro virtù
di Gilberto Borghi
della Redazione di MC
Declinazione corposa dell’amore
Ho provato a declinare l’amore in indicazioni operative.
La prima. Non esiste oggi, a mio avviso, nessuna possibilità di un futuro della fede se non siamo innamorati di Dio. Se, cioè, la Sua presenza non si dà in noi come gioia, dolcezza, pienezza di vita, prima e al di là di ogni altro carattere che la presenza di Dio possa suscitare in noi. Disabilitando ogni altra immagine di Dio, che non sia primariamente quella di Amore. Esperienza, questa, che è l’esito della percezione di essere “afferrati” dalla Sua presenza. Gioia, dolcezza e pienezza che “invadono” il nostro essere e possono essere avvertiti in ogni dimensione umana: mente, cuore e corpo. Lo so, è una esperienza rara, molti dicono mistica, o quasi. È l’aver percepito, di fronte a Dio, che noi siamo tutto e solo “regalo” gratuito che Lui ci ha fatto. Ma questo è parte integrante del nucleo essenziale della fede, in ogni epoca, oggi come domani. Perciò non possiamo non sentirci innamorati di Dio. Avere fede è essere convinti che, se ci siamo, nessuna motivazione sarà mai sufficiente a “spiegare” perché ci siamo proprio noi, se non un regalo gratuito che ci è stato fatto per amore da Dio in Gesù Cristo.
La seconda. Essere “interi”. Cioè essere capaci di mostrare e vivere la fede non solo nella testa, ma anche nel cuore, e soprattutto nel corpo. C’è una fame enorme di una fede così, dove tutta la persona, così com’era prima di incontrare Cristo, è assunta nella fede e si fa voce dell’amore di Dio, così com’è, senza dover tagliare via nulla delle proprie caratteristiche. Intera appunto. Dove spirito, anima e corpo sono tutti in attesa desiderosa della pienezza del Signore. Nella frammentazione post-moderna attuale questa virtù diventa assolutamente essenziale. Perché una fede che non aiuti la persona a ricucirsi dentro non è credibile oggi, e non esisterà domani. La rimessa al centro delle emozioni e del corpo, se da un lato ha dato una spallata ad un senso della vita fatto solo di spiritualità “spiritualistica”, dove solo l’anima era da salvare, dall’altro ha potentemente fatto emergere che il senso che oggi si richiede è un senso “intero”, dove anche il corpo e le emozioni siano “luoghi” di significato esistenziale.
La terza: essere “incarnati”. Essere cioè sintonizzati sul proprio tempo storico e culturale, senza consegnarsi ad esso, certo, ma anche senza nostalgie di epoche passate ormai perdute, con l’orologio esistenziale puntato sul presente. Non è una cosa scontata. Non è da tutti vivere il presente standoci dentro. E non è solo questione di saper usare internet. Molto di più ha a che fare con il non aver ucciso, dentro di sé, il desiderio di vivere la realtà reale che ci è stata regalata, così com’è, prima di giudicarla o condannarla, senza averne paura, perché è l’unico tempo che Dio ci ha dato da vivere. Perciò quando ci rinchiudiamo, per timore o nostalgia, in “luoghi” non contemporanei dell’anima, non siamo fedeli a ciò che Lui ci sta chiedendo. Chi oggi ha ruoli pastorali non riesce a fare a meno di questa virtù. Altrimenti è condannato a parlare ai muri, o solo a coloro che, come lui, vivono in un'altra epoca. Bisogna scegliere la “strada”, anche solo come luogo simbolico, che significa non sottrarsi all’effetto “culturale” attuale e, standoci dentro, trovare modi perché Cristo sia presente anche qui. Perché Cristo è capace di essere incarnato in ogni epoca e in ogni cultura, perché è il Signore del tempo e della storia.
Per agire
Dopo queste tre “i” – innamorati, interi, incarnati - le altre quattro virtù attengono invece all’agire. La quarta: vivere la “gratuità”. Siamo abituati a questa parola, ma forse, proprio per questo, ne abbiamo perso il senso. Che non è quello di compiere azioni per il bene degli altri, principalmente. Ma di compiere azioni che, facendo il bene degli altri, non sono però assolutamente necessarie alla nostra vita. Azioni assolutamente non richieste dai nostri obiettivi di vita, ma che si regalano come doni di grande valore a coloro che le ricevono. In un mondo dove tutto è monetizzato, dove tutto ha senso solo se “utile”, cioè scambiabile, mercanteggiabile, l’essere fuori dal mercato si mostra proprio nella gratuità. Perché ciò che il mondo ha bisogno di vedere è che ci siano persone che, in nome di Cristo e dell’amore gratuito, compiano azioni di bene verso altri, senza nessuna ricompensa. Nemmeno quella di sentirsi buoni. E noi siamo testimoni di un Dio gratuito, non obbligato a nulla e che non ci obbliga a nulla. Questo il mondo non lo sa più e a volte anche noi ce ne siamo dimenticati.La quinta. Oltre la gratuità, oggi un testimone è interessante se sa “condividere”, prima e al di là delle parole che può dire: si deve “partire da dove è l’uomo”, e condividere la sua condizione qualunque sia. Mentre spesso noi continuiamo a pensare che, per accedere alla fede, e crescere in essa, siano necessarie condizioni culturali minimali, senza le quali la fede non può esistere. La fede fondata sulla cultura oggi non attira più, quella fondata sull’esperienza del sentirsi amato, sì. Anzi, in questa logica, i più disponibili a riconoscere di essere amati sono proprio coloro che sono più lontani, i peccatori, gli esclusi. Ma questo, prima che rispondere ad un bisogno della società di oggi, risponde al vangelo. Anche quando non è per nulla chiaro come e quando questo “umanesimo” da cui si parte sarà capace di palesare la fede in Cristo.
A partire proprio da questa ultima considerazione si apre lo spazio per indicare la sesta. Che potremmo definire come il saper “tirarsi via”. Cioè, la capacità dell’operatore pastorale, dopo aver testimoniato la bellezza di Cristo, di restare fisicamente e simbolicamente “un passo indietro”, perché Cristo e la persona possano incontrarsi direttamente. È una speciale forma di pazienza ecclesiale che sta in piedi sulla fiducia in Dio e nella persona. E che prende sul serio l’evangelico “essere servi inutili”. Pazienza che viene incontro proprio ad una delle caratteristiche più evidenti della dimensione spirituale della post-modernità, quella del rapporto “diretto” con il Trascendente. Chi sa “tirarsi via” al momento giusto apre maggiore possibilità di essere credibile. Ovviamente poi dovrà restare lì ad un passo e tenere aperta una relazione, perché questo rapporto diretto non sia totalmente in balia del soggettivismo individuale. Ma non può non partire da questo. Noi non abbiamo l’esclusiva del rapporto con Dio. Lo Spirito agisce dove e come vuole.
Ultima, ma non per ultima, la settima virtù: agire “fuori schema”. Questo vuol dire dare spazio alla creatività, ai tentativi di trovare forme educative in cui le persone di oggi si riconoscano di più. Significa avere una buona consapevolezza della propria posizione rispetto allo “schema”, cioè rispetto a ciò che diffusamente dentro la Chiesa, ma anche nella società, ci si può aspettare da un credente. Ma poi non accontentarsi di azioni e percorsi già ampiamente “vissuti” e sfruttati in passato. E non perché il nuovo di per sé sia sempre buono, ma perché oggi ciò che arriva in modo preconfezionato e istituzionalizzato, che chiede a chi lo fruisce solo di “starci dentro”, ha il fiato molto corto. Proprio perché il mondo cambia, e anche velocemente e il treno della storia non aspetta. Ma se non lo si prende quando passa, poi ne dovremo rendere conto. Perché sul quel treno, anche su quel treno, passa Dio.