Una pieve romanica al centro del casentino. Un prete in crisi che decide di non lasciar perdere e si ritrova, dopo un po’, a fondare una fraternità che va avanti da quasi 30 anni. Un gruppo di genitori in lutto per la perdita dei figli. Un’aria molto umana della celebrazione eucaristica. Ingredienti apparentemente distanti, che mescolati ad arte danno vita ad una esperienza di vangelo: Romena.

di Gilberto Borghi

 La pieve sul prato

Misericordioso, “Tu che tutto abbracci” 

All’improvviso, dietro ad una curva di una stradina stretta e ripida, si apre un piano erboso e lì, nel mezzo, la vedi quasi come un’apparizione.

Ti si mostra da dietro, la parte più antica e affascinante. Del 1152, in “tempore famis”, come sta scritto su un capitello. La pieve di Romena ha nella sua radice il senso profondo della fraternità che dal 1991 vi trova casa. In tempo di fame, di crisi, di carestia, la popolazione, gli artigiani locali, le maestranze lombarde e il signore della zona erigono a Dio questo gioiello casentino, per esprimere tutto il meglio della propria creatività nella speranza di far cessare le tribolazioni.

 L’ispirazione dopo la crisi

Così l’ispirazione di don Luigi Verdi, anima e fondatore della fraternità, nasce dalla pieve: dopo un periodo di crisi personale e spirituale, chiede al vescovo di Fiesole di poter realizzare a Romena un’innovativa esperienza di incontro e di accoglienza per chiunque, soprattutto per chi attraversa una crisi, un dolore, un sentiero interrotto. In pochi anni transitano da Romena sempre più viandanti di questo tempo, in cerca di un posto dove poter sostare, incontrare se stessi e gli altri, e riprendere il proprio cammino. Oggi è un luogo d’incontro per chiunque abbia bisogno «di un pezzo di pane, di un po’ di affetto e di sentirsi a casa da qualche parte», come recita il motto della fraternità.
Sono stato a messa lì: un’esperienza. E già questo è una notizia. Alcune volte da solo, altre con amici credenti, una anche con un amico ateo. Ma sempre ti resta dentro qualcosa che ti tocca e ti smuove. Non so se questo dovrebbe essere il senso della liturgia, così come i teologi ce lo raccontano, ma di certo sono messe non a costo zero.
L’interno è quello di una classica pieve romanica, molto sobria però, dove gli elementi di arredo sono stati “distillati” con cura e semplicità. Il legno, la pietra, il ferro battuto. Poche panche a schienale, semplici e a spina di pesce. Molti sgabelli e panche mobili che le persone possono prendere e posizionare dove vogliono. Ma di fatto non bastano mai, perché la chiesa è sempre stracolma. La gente si siede dove può, in terra, sugli scalini, sui basamenti delle colonne, ma è un disordine molto armonico e semplice dove si respira il senso dell’accoglienza per tutti, senza troppe formalità. Dove nessuno si fa problema ad abbracciarsi e a piangere, dove ci si commuove insieme.
Un altare di pietra con davanti un pannello fatto di brandelli di legno lavorati e al centro una grata in ferro a ricordare le prigioni dell’uomo, i muri da abbattere, le distanze da ricucire. Nessuna immagine o statua, se non un’icona del volto di Cristo, grande, ben visibile, posta davanti all’altare al centro. Poi i capitelli, ognuno diverso, dove trovano vita piante, animali, angeli, demoni e uomini: insomma la vita umana nel suo volto intero, concreto e reale, come ama ripetere spesso don Luigi nelle sue omelie.

 La morte non vince

Un’acustica molto curata permette di sentire le musiche e i canti da ogni lato, ma sempre a basso volume. Canzoni certo non comuni per chi è abituato alla messa “classica” delle nostre parrocchie. A volte canzoni di cantautori famosi, nate fuori dalla liturgia, ma dove testo e musica sono stati scelti con cura per veicolare l’accoglienza a tutti, la naturalezza dello stare insieme, la misericordia incrollabile di Dio e la speranza forte che il dolore e la morte non vincono. Proprio questo sembra essere un carattere che distingue Romena: un luogo dove i dolori, le sofferenze, i lutti, possono trovare casa ed essere contenuti, attraversati e recuperati alla vita come energia amorevole che guarisce le ferite e lascia le cicatrici visibili affinché ci ricordiamo dei nostri limiti.
Ma poi, forse per me che sono un po’ dentro alle cose liturgiche, ciò che maggiormente colpisce sono le piccole, quasi impercettibili variazioni sul canovaccio della messa, che però “parlano” molto di come a Romena si percepisca la presenza di Dio. L’espressione “Dio onnipotente” non si usa mai, sostituita sempre dalla locuzione “Tu che tutto abbracci”. Una scelta di essenzializzare la parola di Dio, leggendo il vangelo e la lettura, tra le due canoniche, che più si coordina con il tema di quella domenica. La concentrazione dell’omelia, in genere mai più di 7-8 minuti, su un solo tema, quello centrale del vangelo, mostrando sempre il lato della umanità piena e amorevole di Cristo.
Don Luigi lascia sempre il posto da celebrante principale a qualche prete (ce ne sono sempre più di uno) di gruppi che sono lì in visita quella domenica e si riserva l’omelia e la parte della preghiera eucaristica in cui, con calma, legge tutti i nomi delle persone per cui quella messa viene celebrata. E qui sta una seconda “cifra” di questa fraternità. Nel tempo si è costituito un gruppo di genitori accomunati tutti dalla perdita di un figlio, che fanno incontri, confronti, cammini per attraversare il lutto, anche con il supporto di psicologi, e ritrovare nel vangelo l’energia e il senso che la morte gli ha fatto smarrire. Per ognuno di questi figli, a fianco della pieve è stato piantato un ulivo, fino a costruire una vera e propria “via della resurrezione”, percorribile in otto stazioni: umiltà, fiducia, libertà, leggerezza, fedeltà, perdono, tenerezza, amore. E ogni domenica, i genitori presenti quel giorno scrivono il nome del proprio figlio affinché venga ricordato nella messa. Poi, al centro della celebrazione, la scelta accurata della preghiera eucaristica, tra le otto possibili. Molto spesso la V/c che sottolinea l’amore di Cristo per gli uomini e la seconda della riconciliazione, che accentua l’unità delle persone come conseguenza del perdono di Dio. Preghiere raramente frequentate nelle nostre messe abituali, ma che cercano una mediazione più “calda” tra il trascendente e l’uomo.

 Le estromesse, i non arresi e un amico ateo

Da una parte le donne di mezza età. Che lì rappresentano almeno il 50% dei presenti. Donne che, sentite intervenire durante alcuni incontri di formazione della fraternità a cui ho partecipato, hanno spesso il dente avvelenato verso una Chiesa che le ha “estromesse” (o almeno loro si sono sentite così) proprio nel momento in cui avrebbero avuto più bisogno di essere accolte e perdonate nei loro limiti ed errori. Dall’altra alcuni uomini “pensanti”, che cioè non rinunciano ad interrogarsi senza preclusione sulla distanza tra il vangelo e la Chiesa di oggi che loro hanno incontrato, ma che non si sono arresi alla tentazione di gettare via “l’acqua e il bambino”. Di sicuro queste sono persone che non parteciperebbero facilmente alle nostre celebrazioni ordinarie, abituali. Ho direttamente incontrato persone della mia città con cui ho parlato, che hanno candidamente ammesso: «Qui ci vengo a messa, da altre parti non ce la faccio proprio».
Mi hanno colpito le reazioni spontanee del mio amico ateo (lui dice di esserlo, ma chissà) mentre partecipava alla messa. Al canto d’ingresso ha sgranato gli occhi e guardandomi mi ha detto: «Ma questa è dei Nomadi». Ho solo sorriso. All’omelia mi sussurra all’orecchio: «Ma questo come fa a fare il prete?». Gli chiedo: «Perché? ». E lui: «Ma è troppo normale, è umano, come fa?». E alla comunione mi sorprende con un: «Ma ve’ che roba!». Gli dico: «Cosa?». E lui: «Un prete che entra tra la gente e viene incontro alle persone e offre il pane. Non l’ho mai visto fare da un cattolico». Resto stupito e lui lo vede: «Sì, lui ti viene incontro, ti viene a cercare, ti offre una possibilità, poi tu puoi dire sì o no, ma ti cerca lui». E mentre torniamo in auto, tra discorsi molto lontani, all’improvviso mi dice: «Qui ci torno di sicuro».