Un laico che fa le benedizioni alle famiglie. Eh, i parroci non arrivano a tutto! Ma davvero è solo questa la motivazione? Daniele forse ha altro da dirci su questo. Da poco passata la sessantina, sposato, cinque figli, educatore in un laboratorio protetto, è un accolito di una parrocchia della periferia di Bologna. Qui, nella primavera del 2018, ha svolto il servizio delle benedizioni alle famiglie, che tradizionalmente si collega al periodo pasquale. Con molte conferme e qualche sorpresa.

a cura di Gilberto Borghi

 La benedizione è un bacio

Intervista a Daniele Valgimigli, accolito di una parrocchia nella periferia di Bologna

 Come hai vissuto questa esperienza pastorale?

All’inizio ha prevalso l’apprensione, per due motivi: avrò l’approccio giusto per le varie situazioni?

Come accetterò i rifiuti e le provocazioni? In realtà, il lupo fa sempre più paura nelle favole che nella realtà. Le mie paure si sono dissolte ben presto: non perché io sia stato bravo, ma forse perché la vita mi ha abituato ad incontrare molteplici situazioni, non sempre facili, ma in qualche modo, con l’aiuto del Signore, me la sono sempre cavata.

 Che realtà hai trovato davanti a te?

Quelli che ho trovato in casa, i più non li conoscevo, non frequentano la parrocchia se non alcuni saltuariamente, pochissimi vanno in Chiesa da altre parti, farfugliano il “Pater”, non sono educati e molti lasciano la tv accesa e alcuni con volume da sordi. Però ti accolgono e non è poco. Ho pregato il Pater con diversi ortodossi che dall’anagrafica in mio possesso risultavano essere riluttanti ed io a dirgli “ma siamo più che fratelli, divisi da cose ben misere”, a ognuno chiedevo di recitare nella propria lingua. Chi frequenta la parrocchia preferisce avere il parroco, i più, quando capiscono che non è possibile, si accontentano; tra i pochi esterni, per cui o il parroco o niente, solo uno non mi ha aperto. Forse la mia laicità mi ha aiutato, così come con i “titubanti”, perché dicevo subito che ero mandato dal parroco, non ero un prete bensì un padre di famiglia.

 Che riflessione ti viene da fare sulla efficacia della tua laicità e dell’essere padre di famiglia, rispetto all’essere prete?

Non metto in contrapposizione le due figure. Penso che il sacerdote rappresenti ancora per tutti il “depositario” dei sacramenti, ma può rischiare di essere visto dai “maliziosi”, come uno che fa il suo “mestiere”; credo altresì che un laico che compie un servizio di questo genere possa far nascere la domanda: “ma chi glielo fa fare?”. Testimoniare la gratuità oggi fa molta differenza.

 Come ti sei posto nella relazione pastorale?

Ho cercato un modo che potesse essere attento all’umanità delle persone, di non presentarmi come un fenomeno, un super-uomo-fedele-lasotuttaio; e magari con chi, pur non frequentando la messa, mi conosce per via della scuola dei miei figli o dello sport, ho cercato di essere in quel momento della benedizione come nella vita di tutti i giorni. E quando qualcuno mi diceva: “Se vuole faccia pure” ho sempre risposto: “ Lo deve volere anche lei, sennò a cosa serve?”, per non prestare il fianco alle superstizioni che ci sono di sicuro (es. a chi chiede di benedire le varie stanze dicevo che era un modo per portare il Signore, già presente, a vedere ed aiutare dove si vive, i muri non ne hanno bisogno, la gente sì)  Altri, anche se non andavo a casa loro, mi hanno detto di avermi riconosciuto nella foto che c’era sul calendario che veniva messo in buchetta. Ecco: credo che anche questa possa essere una provocazione forse positiva: magari si interrogano sul perché.

 Questo rito tradizionale delle benedizioni, molto affaticante, continua ancora ad avere valore?

Perché, pur portando via così tante energie (il parroco andava 4 pomeriggi alla settimana per 10 settimane dalle 16 alle 19 circa), penso abbia un grande valore? Perché si incontrano le persone nel loro intimo (fosse anche solo nella loro casa), perché per diversi è una delle poche occasioni annuali di dire una preghiera, di mettere in conto, se non il trascendente, almeno il sacro. E dentro a questi incontri c’è un rito che ha valore anche perché incrocia tante storie di fatiche: problemi genitori/figli; anziani soli; separazioni; malattie anche pesanti, una solitudine che è difficile da scalfire: se proponi loro qualcosa, vedi che lo temono; e poi storie belle di coppie, con tanti anni di vita insieme, che si vogliono bene ed hanno una sapienza dello “stare al mondo” che nemmeno Salomone… Ci sarebbe un capitolo da scrivere su quali orari usare per trovare i più che lavorano, su come diluire nell’arco dell’anno e non in tre mesi.

 Ecco, puoi darci qualche indicazione per scrivere questo capitolo?

Intanto credo che l’orario migliore per incontrare le famiglie più giovani che lavorano penso sia dalle 18 alle 19,30, cioè in un orario che è un “intermezzo”. Così facendo occorrerebbe però molto più tempo per coprire il territorio e rischia di far perdere il significato del periodo che va da dopo l’Epifania fino alla settimana santa. Ma c’è già chi lo sta facendo.

 Pensi che il tuo servizio sia stato solo una supplenza al tuo parroco, o può essere un piccolo segno verso un modo diverso di essere comunità?

Se fossimo pieni di preti a me non sarebbe stato chiesto. Però penso che occorra vedere la cosa non solo dal punto di vista dell’emergenza e dell’efficienza, ma come espressione di quel laicato partecipe e responsabile che già il concilio ci ha descritto. Poi molti secoli prima c’era chi parlava di diversità di carismi; però noi pensiamo sempre a carismi da “superman”. Comunque, da questa esperienza, chi ne ha tratto il maggior beneficio sono stato io, per quello che ho ascoltato e osservato.

 C’è stato un incontro che ti ha particolarmente segnato come cristiano?

Sì, già al primo giorno. Suono e mi apre una signora sola. Mi presento e lei dice con fare rassegnato: “Dia pure la benedizione”. Penso: o si è arresa, oppure non ha voglia di decidersi. Allora le dico: “Proviamo a farlo assieme?”. Sembra annuire. Parto col segno di croce e lo fa anche lei; decido una formula più breve e arrivo al “ora preghiamo con la preghiera che ci ha insegnato Gesù: il Padre Nostro”. “La so; me la diceva la mia mamma” – interviene lei con un moto di risveglio e nostalgia. “Di solito io non la recito mai a voce alta, perché voglio tenere il ritmo degli altri”, e sento che dice “…che stai nei cieli” e poi “casa in cielo e casa in terra”. Resto stupito e penso: chissà da quanti decenni, forse mezzo secolo, non la reciti più. Ma poi mi accorgo che quella frase ci sta proprio bene lì, e teologicamente ci si potrebbe lavorare tanto…
La vedo commossa, benedico con l’asperges facendo tre gesti intorno. Mi dice: “anche a me”. Le poso l’aspersorio per alcuni attimi sulla fronte. Mi porge il palmo a cucchiaio; apro l’aspersorio e ne verso un po’, se lo passa su volto e si ferma sulle labbra. Mi commuove: “Signora, lo sa che mi ha trasmesso un’emozione forte, ma forte”. “Per cosa?” mi fa. “Questo lo sa lei, a me è arrivata e non sono mica di quelli che sentono i fluidi o “chennesò”. “Era positiva?” “ Per me sì”.
All’inizio mi aveva fatto notare delle vecchie “chiodelle” arrugginite che erano di suo padre. Vedo quei chiodi: “Beh, lo sa cosa mi dicono quelli? Sono i chiodi della croce di Cristo e delle nostre croci; però, non hanno l’ultima parola, perché Lui è risorto e la speranza è che sarà così anche per noi”. Mi guarda e non mi sembra di vedere la stessa persona dell’ingresso: “Mi dà un bacio?”. “Certo!” – le dico. Ci siamo abbracciati e dati un bacio sulle guance. Un ultimo sguardo, di quelli che vanno a pescare fin chissà dove. (Mannaggia a me, non avevo un vangelo da darle).

 Una bella sorpresa. Sottolineo, invece, solo due conferme tra le altre possibili. L’attenzione all’umano paga molto in termini di evangelizzazione ancora possibile; l’essere troppo “targati” invece paga molto poco. [è di Gilberto? A me pare di capire che questo paragrafo finale sia di Gilberto. Per cui l’ho messo in corsivo]