Ma diamoci una regolata

Migliorare il sistema di immigrazione regolare, aiuterebbe cittadini e migranti

 di Elisa Fiorani
francescana secolare, sindacalista

 Al termine dell’estate 2025, con i post social dei viaggi nostri e altrui, le foto aesthetic, i paesaggi più o meno esotici e la polemica sulla riviera romagnola senza turisti, i migranti forzati hanno superato i 122 milioni nel mondo, un numero raddoppiato nell’ultimo decennio.

Secondo l’ultimo Rapporto UNHCR e contrariamente a quello che pensiamo, il 67% dei rifugiati rimane nei Paesi limitrofi e i Paesi a basso e medio reddito ospitano il 73% dei rifugiati del mondo.

I Paesi a basso reddito ospitano, quindi, una quota sproporzionata di rifugiati nel mondo, sia in termini di popolazione che di risorse disponibili: rappresentano il 9% della popolazione mondiale e solo lo 0,6% del prodotto interno globale, eppure ospitano il 19% dei rifugiati.
Se allarghiamo lo sguardo, secondo le Nazioni Unite, il numero dei migranti internazionali nel 2025 ha raggiunto la cifra di 281 milioni, ovvero il 3,6 % della popolazione globale. L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile include in uno dei suoi Obiettivi (SDG 10, Target 7) l’impegno da parte degli Stati di «facilitare la migrazione e la mobilità delle persone in modo ordinato, sicuro, regolare e responsabile, anche attraverso l’attuazione di misure pianificate e politiche migratorie ben gestite». Non possiamo dire che l’obiettivo sia vicino, né che sia stato perseguito. Anzi, a conti fatti, ce ne stiamo volontariamente allontanando.

 Difendere i diritti o i privilegi?

Il diritto a viaggiare e a migrare è sancito dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani. Tuttavia, questo diritto è limitato da un’asimmetria che riguarda il riconoscimento del diritto alla libertà di movimento e le leggi che gli Stati impongono sull’immigrazione. Le migrazioni sono viste dai Paesi occidentali come emergenze, come minacce per l’ordine pubblico e per l’economia, salvo poi lamentarsi di crisi demografiche o di mancanza di forza lavoro.
Rimangono ai margini del dibattito pubblico i punti cruciali della questione: le ragioni per cui le persone decidono di andarsene dal proprio Paese (sia perché sono in pericolo sia per migliorare la propria vita e quella dei familiari, in un intreccio che spesso sovrappone più motivazioni) e il numero esiguo di vie legali che le persone possono scegliere per farlo.
Nascere in un Paese piuttosto che in altro fa la differenza rispetto alle necessità e ai progetti di protezione e sicurezza, studio, lavoro, ricongiungimento familiare, in un Paese del quale non si ha la cittadinanza. Indipendentemente dalle capacità e dalle competenze, dalla determinazione e, persino, dalle opportunità e dalle proposte lavorative.
Non tutti i passaporti sono uguali. Da oltre venti anni, l’Henley Passport Index elabora una classifica dei passaporti più “potenti” al mondo, in base al numero di Paesi accessibili senza un visto preventivo. L'indice valuta la libertà di viaggio dei possessori del passaporto, classificando i Paesi in base al numero di destinazioni che i loro cittadini possono visitare senza dover chiedere prima un’autorizzazione, che può anche prevedere un rifiuto.
L’Italia, nel 2025, si classifica tra le prime posizioni, al terzo posto, condiviso con altri Paesi, come la Francia e la Germania: al primo troviamo Singapore, i cui cittadini hanno accesso libero a 193 destinazioni su 227 globali; al secondo il Giappone. Il primo Paese del continente africano è il Sud Africa, ma al 45esimo posto; il Marocco si trova verso il basso della classifica, al 65esimo posto; il Senegal al 75esimo. Se guardiamo all’Europa dell’Est, l’Albania è al 40esimo posto; ancora più a Est il Pakistan è al 95esimo posto, con appena 32 Paesi ad accesso libero; la Cina al 58esimo.
Più si scende di posizione, più il diritto di muoversi e di migrare è quindi un diritto limitato. Un cittadino italiano può muoversi molto più liberamente di un cittadino pakistano. È così: chi non può migrare regolarmente, è costretto a farlo in modo irregolare, rischiando spesso la vita.

 Le poche vie regolari

In Italia, fino ad oggi, una persona straniera spesso fa ingresso tramite vie informali, nella speranza di regolarizzarsi nel corso del tempo. Quando il numero di lavoratrici e lavoratori stranieri che riempiono le sacche del lavoro sommerso non è più ignorabile, i vari governi in carica procedono con le regolarizzazioni (o “sanatorie”): l’ultima è stata nel 2020, con ritardi ed inefficienze burocratiche che hanno portato per alcuni al rilascio dei permessi nel 2024. L’altra possibilità di ingresso regolare è attraverso i decreti flussi, che definiscono il numero massimo di ingressi attraverso un meccanismo di quote per settori e Paesi di provenienza. I decreti flussi sono spesso associati a cosiddetti click day, in cui solo i primi in ordine di tempo hanno accesso alle quote. I decreti flussi sono procedure di assunzione che si fondano sulla chiamata nominativa, la quale presuppone (!) che il datore di lavoro abbia già una conoscenza diretta dello straniero, nonostante questi debba necessariamente ancora trovarsi all’estero. 
Aver negato per tanti anni l’esistenza di visti per ricerca di lavoro in Italia con un tempo ragionevole, ha costretto tante persone non solo ad affidarsi ai trafficanti, ma anche a cercare di entrare nel sistema della protezione internazionale, pur non avendone pienamente i requisiti.
Questa gestione politica dell’immigrazione non funziona, e non funziona da venticinque anni. Nonostante siano aumentate le quote messe a disposizione ogni anno per gli ingressi, le procedure sono troppo onerose e lunghe, sia in Italia che nel successivo passaggio per ottenere il visto nell’ambasciata italiana del proprio Paese, e l’incontro tra domanda e offerta di lavoro non può certo attendere troppi mesi o addirittura anni. Nel 2024 solo il 7,8% delle quote di ingressi stabilite dal governo si è trasformato in permessi di soggiorno e impieghi stabili e regolari.
Sarebbe necessaria – e da tempo associazioni datoriali, sindacali, del terzo settore lo richiedono – una riforma che superi i click day e preveda canali diversificati e flessibili, con l’introduzione della figura dello sponsor o di un permesso per ricerca lavoro, e un meccanismo di regolarizzazione su base individuale – sempre accessibile, senza bisogno di sanatorie – che dia la possibilità a chi rimane senza documenti di mettersi in regola a fronte della disponibilità di un contratto di lavoro o di un effettivo radicamento nel territorio.

 Facciamo i farisei

L’Italia e l’Europa sono, invece, ferme a politiche di contenimento di flussi migratori alle frontiere esterne e di esternalizzazione di confini e diritti, con pesanti ripercussioni sui principi di diritto internazionale e diritto dell’UE. Ed ecco allora la creazione di muri sui confini, la riduzione dei canali di ingresso sicuri per persone provenienti da Paesi terzi, la detenzione amministrativa, il rimpatrio forzato, il respingimento sistematico di persone alla frontiera.
Il recente Patto per le Migrazioni e l’Asilo ha rimodellato in senso preoccupante il diritto dell’Unione europea in materia di asilo e protezione internazionale. Nello scenario bellico globale, il presupposto narrativo del nuovo Patto non è la tutela del diritto fondamentale all’asilo politico, ma la prevenzione – alquanto farisaica - dell’abuso di quel diritto.
Quando ascolteremo l’ennesimo dibattito mediatico e politico sull’immigrazione, che elimina la complessità e polarizza tra pro e contro, ripensiamo allora alla mobilità delle persone divise in serie A e serie B, agli effetti che le leggi vigenti nel Paese di arrivo hanno sui migranti e alla quantità di vie effettivamente percorribili per chi decide di affrontare un viaggio verso l’Europa. E ripensiamo anche a che cosa faremmo noi se fossimo al loro posto.