Dalla parte giusta

La vita delle “seconde generazioni” fra desiderio di cittadinanza e tradizioni d’origine

 intervista a Kejsi Hodo, figlia di immigrati albanesi
a cura di Fabrizio Mandreoli, docente di teologia comparativa e contestuale presso Unibo e Facoltà Teologica dell’Italia Centrale

 Per cercare di dire qualcosa sui “figli delle migrazioni”, ho intervistato Kejsi Hodo che è stata raggiunta - all’inizio di settembre 2025 - negli Stati Uniti dove si trova per un breve soggiorno di studio.

La sua unica e personale vicenda mi pare possa rappresentare una parabola significativa della vicenda di persone, nate e/o cresciute in Italia, figlie di persone migranti. Una parabola che, per il lettore e la lettrice, può mostrare molte virtualità sociali e umane, oltre che sollecitare pensieri a chi si interessa responsabilmente della vita - e del futuro - del nostro paese nei suoi significati e valori di fondo.  

 Kejsi, mi puoi dire alcune parole sul tuo background e sulla tua famiglia?
Con la mia famiglia siamo arrivati in Italia nel 2008, mio papà era già stato qui facendo lavori anche molto duri. Veniamo da Fier una città vicino a Valona. Ci siamo trasferiti a Bologna perché c’era il cugino di papà che ci ha detto: «Venite perché c’è una sanatoria». Mia mamma è stata la prima a fare la richiesta di permesso di soggiorno. Quando l’ha ricevuto la prima volta, le avevano sbagliato il nome e quindi dopo due anni di attesa l’ha dovuto rifare. Poi lei ha fatto il ricongiungimento per mio papà, me e mio fratello. Dal mio arrivo in Italia al momento in cui io ho preso il soggiorno sono passati sei anni. Nel frattempo io e mio fratello siamo andati a scuola. Per fortuna in Italia il diritto all’istruzione è universale e non ti chiedono il permesso di soggiorno per andare a scuola, però te lo chiedono per la mensa della scuola.

 Niente mensa: perché?
Perché la mensa è un servizio del comune e occorre la residenza per usufruirne. Mia mamma doveva venire a portarci il pranzo. Tra l’altro per consumarlo dovevamo uscire dalla scuola per questioni d’assicurazione. Ammetto che ho un brutto ricordo di questa cosa: dovevo  uscire anche nei giorni più freddi. Sto chiedendo al Comune di Bologna di risolvere questa situazione. Ho un altro ricordo non bello delle elementari: anch’io, come tutti gli immigrati, sono stata retrocessa di una classe per fare lezioni di alfabetizzazione: di solito succede che ti portano via dalla lezione in orari di materie che vengono considerate non fondamentali, tipo storia e arte, che a me piacevano molto. Io questa cosa la odiavo, ero arrabbiatissima col mondo e questo mi ha spinto ad imparare l’italiano in frettissima: dopo circa 3 mesi già parlavo non male e dopo 6 mesi ero a posto con la lingua.
Sono poi passata alle medie: fortunatamente la professoressa d’italiano delle medie mi ha indirizzato verso il Galvani, al liceo internazionale scientifico, perché vedeva già le mie aspirazioni per un futuro nel mondo diplomatico.

 Hai detto per il mondo diplomatico?
Sì, avevo quest’idea. La genesi è sicuramente mio nonno materno che era appassionato di politica e mi ripeteva spesso: «Vedrai, tu diventerai un’ambasciatrice».  Avevo già questa idea in terza media e soprattutto avevo la passione per le lingue. Mi rendo conto ora che sono stata molto fortunata perché sono stata molto seguita e così dopo cinque anni potevo scegliere qualsiasi scuola perché avevo una preparazione adeguata. Questo però non è il caso di tutti gli studenti con background migratorio in Italia, che ricevono molto spesso il consiglio di andare in un istituto professionale perché non vengono ritenuti capaci di affrontare un percorso di liceo che li porterà all’università e questo costituisce uno svantaggio incredibile, perché già in partenza a te viene detto che tu non sei capace di laurearti, con tutto ciò che ne consegue.

 Ci sono stati dei momenti in cui hai sentito di più la tua condizione di ‘immigrata’?
Sì, molti. Ne ricordo due. È dall’età di dieci anni fino ad oggi che io mi occupo di tutta la burocrazia della mia famiglia, cosa che solitamente non spetta ai bambini, invece per me era necessario, come anche far da interprete ai miei genitori perché loro ovviamente ci hanno messo di più a imparare l’italiano. Col tempo però questa cosa mi è diventata molto pesante, perché ti fa sentire diversa dagli altri. Stessa cosa per il rinnovo del permesso di soggiorno: fila all’alba, file lunghissime, al freddo, al sole, dove a nessuno gliene frega niente delle tue condizioni, e del fatto che tu debba perdere un giorno di scuola per andare a rinnovare il permesso di soggiorno o che a 14 anni ti debbano prendere le impronte digitali perché sei una figlia di immigrati.

 Ci sono tradizioni da conservare?
Alle medie ho cominciato a sentire di essere “in mezzo” tra la crescita in Italia e i genitori albanesi che ci tenevano che io conservassi anche i valori e le tradizioni albanesi. Di solito i migranti sono molto legati alle tradizioni e rischiano di portare avanti dinamiche che non sono più presenti neanche nel paese di origine. Si sentono come in dovere di appartenere ancora alla propria terra, per cui esasperano una mentalità e certi comportamenti che magari sono già cambiati nei paesi d’origine. Su tanti temi una cosa che mi diceva spesso mio papà o mia mamma era: «Ma noi siamo albanesi!».
Ci sono degli aspetti culturali da conservare, legati alle festività, alla musica e al cibo. Ci sono anche aspetti religiosi, ma non molto nella mia famiglia. In Albania poi c’è stata la dittatura comunista che ha ufficialmente eliminato la religione dallo Stato, anche se in realtà la religione non ha mai smesso di esistere: le persone continuavano comunque a vedersi, a pregare di nascosto anche durante la dittatura.

 Come hai vissuto il referendum dell’8 giugno 2025?
A 18 anni ho realizzato che non avrei potuto votare in Italia. Alle medie io ero una consigliera del quartiere dei ragazzi San Vitale-San Donato. Ero stata eletta e facevamo un sacco di cose, organizzavamo degli eventi: è stata un’esperienza molto bella. Quando mi sono resa conto che non avrei potuto votare in Italia, è stato per me devastante. Non solo, anche quando ho iniziato l’università volevo studiare scienze internazionali e diplomatiche, per fare poi il concorso per i diplomatici. E ho realizzato che, senza cittadinanza, non solo non posso votare, non posso nemmeno partecipare ai bandi e ai concorsi pubblici.
Per me il referendum dell’8 giugno 2025 ha significato soprattutto comunità. Prima del referendum sono entrata in contatto con Dalla parte giusta della storia, che è l’associazione di cui adesso sono la vicepresidentessa, che porta avanti da anni le istanze per la riforma del diritto di cittadinanza, ma ancora di più l’associazione per me è come la mia famiglia. In vista del referendum abbiamo viaggiato tanto e abbiamo incontrato tantissime persone e tante istituzioni.
Il risultato ci ha deluso: non per il quorum, ma per il fatto che ci sono stati 60% di sì e 40% di no. Questo ci ha fatto male. Lo dico sinceramente, il fatto che ci siano stati 40% di no è qualcosa che ci ha fatto riflettere su come continuare a portare avanti la lotta. C’è stato un primo momento di rabbia. Seguito poi, però, molto rapidamente dalla consapevolezza che siamo in un paese in cui non bastano così pochi mesi per aprire un discorso così ampio e complesso. Quello che serve è un lavoro molto più profondo che è legato a tanti aspetti. È legato al razzismo, alle istituzioni, alla qualità di vita in Italia, al diritto sulla migrazione. Sentiamo la necessità di partire dal basso e di tenere tutto collegato: il tema della cittadinanza, il decreto legge sicurezza, la crisi climatica, l’erosione dei diritti sociali. E bisogna veramente riflettere su quale strumento utilizzare e su come interloquire con le persone.

 

 

Per approfondire consigliamo:
RENATA PEPICELLI
Né oriente né occidente.
Vivere in un mondo nuovo
Il Mulino, Bologna 2025,
pp. 168