Con le unghie e con i denti

Difendere il buono della nostra sanità, partendo dalla fiducia fra pazienti e operatori

 Intervista a Monica Minardi, medico, presidente MFS Italia
a cura di Saverio Orselli, della Redazione di MC

  Sanità e fiducia sono molto legate: come hai visto cambiare il livello di fiducia da quando sei medico?

Il tema della fiducia in medicina è complicato ma fondamentale da affrontare. Quello che ho notato nelle mie varie attività mediche – facendo il medico di base, di emergenza e, su un altro piano, con Medici Senza Frontiere (MSF) – è che nel nostro mondo sanitario “occidentale”, ovvero nei contesti ad alto reddito, diversamente da ciò che facciamo come MSF, mi sembra si stia scivolando pericolosamente verso una medicina sempre più orientata a erogare prestazioni, e meno a offrire cura. Penso al rapporto medico-paziente nella medicina di base, che nella mia esperienza recente mi ha mostrato quanto il rapporto di fiducia si sia incrinato. Ho notato molta spinta da parte di pazienti e alcuni colleghi a erogare molte prestazioni, molti farmaci, a scapito di una presa in carico del paziente in toto. È come se la qualità del medico fosse direttamente collegata al numero di indagini o farmaci prescritti, e molto meno al tempo, alla relazione tra medico e paziente. Ormai il paziente, per paura o per illusione di avere a disposizione le informazioni utili, pensa che sia necessario per ogni sintomo rivolgersi allo specialista, togliendo fiducia e ruolo al medico di medicina generale, così come a quello di Pronto Soccorso, figure molto svalorizzate in questa fase.
«Sono andato dal cardiologo, dal reumatologo…», si sente ripetere ed è difficile pensare che il medico di base abbia qualcosa da aggiungere o anche solo da dire. Il medico generalista dovrebbe essere in grado di analizzare l’insieme, considerando le possibili implicazioni che si nascondono dietro uno specifico sintomo, ma ormai per ogni dolore si pensa a uno specialista. Oltre ai pazienti, noi medici abbiamo molta responsabilità in questo. E la medicina privata anche. Come MSF ci rendiamo sempre più conto che è difficile, e spesso impossibile, difendere e preservare lo spazio della cura. La cura non è solo dare la medicina o fornire, ad esempio, il cibo pronto all’uso per i malnutriti, ma significa qualcosa di più. Il cibo per malnutriti dato a un bambino che è rimasto senza genitori non ha lo stesso effetto che può avere su un piccolo malnutrito che ha accanto la mamma. Lo spazio della cura comprende tutto quello che c’è attorno ai malati, quindi la famiglia, la comunità, la disponibilità di uno spazio sicuro, senza pericolo di bombardamenti, senza pericolo di attacchi, senza il continuo ronzio dei droni…

 La richiesta di esami di approfondimento sempre più diffusa a cosa pensi sia dovuta?
Se in occidente c’è sicuramente una richiesta sempre crescente di prestazioni specialistiche, è significativo – stando al confronto con vari colleghi – che siano le nuove generazioni di medici ad affidarsi ancora di più alla diagnostica. Come medici, sembra non ci sia più la capacità di dire al paziente non posso assicurarti al 100% che il tuo disturbo è questo, ma – escluso che si tratti di ictus, infarto in atto, emorragia o qualcosa di urgente – forse è bene prendersi il tempo per vedere come evolve la situazione, perché proprio il tempo ha un valore fondamentale in medicina e non solo in termini di urgenza. Ora invece bisogna avere subito un’indicazione immediata, un po’ sull’onda dei motori di ricerca di internet, che, una volta indicato un disturbo, subito rispondono con una serie di casi che non possono che allarmare. Il ruolo del medico dovrebbe essere quello di riconsiderare la situazione del paziente, contestualizzando i vari elementi – la famiglia, il luogo in cui vive, le malattie pregresse… – per arrivare a mettere in atto “l’arte della medicina”, che continua a essere tale e non una scienza esatta. Ci siamo spostati più sulla perfomance che sulla cura, con la medicina ‘difensiva’ che gioca un ruolo importante, mentre invece dovremmo difendere lo spazio della cura, da noi come in ogni altro luogo… anche se a Gaza o in Sudan, in Ucraina, ad Haiti, è tutto più complicato, visto che lo spazio di cura non solo non è difeso ma è deliberatamente attaccato...

 Hai esercitato la professione in Italia come medico di base e come medico in Pronto Soccorso, nel Regno Unito e nelle zone di emergenza con Medici Senza Frontiere: quali differenze hai riscontrato in queste diverse realtà?
Noi abbiamo un Sistema Sanitario Nazionale (SSN) che dobbiamo assolutamente difendere con le unghie e con i denti, perché è strutturato molto bene, con una capillarità di presenza che è una garanzia di accesso alle cure, almeno nella nostra Regione, la sola in cui in Italia ho lavorato. La capillarità e presenza sul territorio del nostro SSN, ad esempio, in Inghilterra non è più presente da anni e anni, e forse non c’è mai stata. Il SSN va sostenuto di più e in modo più coerente e coraggioso. Non è solo un problema di soldi: mancano i fondi, ma manca anche un’adeguata valorizzazione delle persone che lavorano e ogni giorno fanno sì che il SSN non crolli. Purtroppo, tante colleghe e colleghi non si sentono valorizzati e, anzi, al contrario si sentono sviliti e marginalizzati. Un difetto che mi pare evidente e che confermano tanti dati a disposizione è che il nostro mondo medico è ancora troppo maschilista, anche se ci sono dei posti “illuminati”, come quello dove sono attualmente, il Pronto Soccorso e 118 di Faenza.
Una differenza importante che ho notato rispetto al sistema inglese (NHS-National Health System) è la presenza nel Regno Unito di linee guida e protocolli validi a livello nazionale, che rendono la pratica della medicina più omogenea e basata sulle evidenze; la progressione di carriera viene supportata e l’esperienza viene valorizzata. Medici e infermieri esperti vengono valorizzati nel ruolo di consulenti, riconoscendo loro le capacità acquisite col passare del tempo e, contemporaneamente, alleggerendoli delle attività più faticose, come i turni notturni o nel fine settimana. La griglia molto rigida di protocolli, che a noi italiani sembra eccessiva, costituisce una sorta di minimo comun denominatore che ai pazienti garantisce una certa omogeneità di trattamento. Ecco, la differenza tra il nostro sistema e quello inglese è la maggiore valorizzazione che in Inghilterra, pur tra tutte le difficoltà che hanno, viene riservata a medici e infermieri, che coinvolge anche la realtà delle specializzazioni. 

Infine, come giudichi il fenomeno sempre più diffuso della violenza nei confronti dei sanitari: è legato alla mancanza di fiducia?
Indubbiamente dopo il Covid c’è stata una perdita di ruolo. Ben prima della pandemia, da decenni eravamo stati messi su un piedistallo e non era giusto, e anche con il Covid siamo stati visti come “angeli custodi”, per poi essere rapidamente considerati quasi degli avversari. Anche nel caso della medicina, si pensa che, se qualcosa va male, deve esserci un colpevole. In sanità, come in tutti gli altri ambiti umani, si fanno errori, amplificati in medicina da problemi dovuti a mancanza di comunicazione, alla fretta, alla velocità, alla stessa stanchezza degli operatori, obbligati a lavorare con turni faticosi e con un carico fisico e mentale non indifferente, per cui sono sempre più necessari sistemi di mitigazione dei possibili errori, cosa che si sta facendo in Italia, come in Inghilterra e in MSF.
Il paziente ha sempre il diritto di capire, di andare a fondo, se pensa di avere subito un errore, ma la violenza non è mai giustificata, è una forma intollerabile di mancanza di rispetto reciproco, di mancanza di dialogo e dell’importanza della persona in sé ma anche del ruolo che ricopre. La fiducia reciproca è fondamentale. E, messaggio ancora più pressante, è necessario lavorare insieme con fiducia – medici di base, medici ospedalieri, dirigenti, pazienti, comunità – perché abbiamo un compito importante da realizzare e il gioiello del nostro sistema sanitario dobbiamo salvaguardarlo con tutte le forze. Insomma, quando come società curiamo la salute di tutte le persone, senza distinzione di etnia, religione, credo politico, idee, genere, status sociale, questo manifesta il livello di umanità e di civiltà di tutti noi.