E nei tuoi occhi svanì la mia indifferenza
Lo sguardo, le parole dei migranti a Lampedusa, insegnano un altro modo di vivere
di Annalisa Saracino
professore ordinario di Malattie Infettive, Clinica Malattie Infettive, Università di Bari
«Tante volte, lavorando sul molo Favaloro di Lampedusa, dopo uno sbarco si andava con i colleghi ed i mediatori culturali a prendere un caffè in un bar vicino.
Era un modo per scaricare la tensione, per legare oltre il lavoro, per conoscersi. Spesso diventava occasione di scambio di culture. Uno dei passatempi preferiti erano delle piccole semplicissime lezioni di arabo. Poche parole fondamentali, parole sconnesse, che sicuramente suonavano buffe ma avevano il sapore dell’accoglienza… Ci spiegavano: se quando chiedete come stai, vi rispondono “Miya Miya”, non dovete insistere, vuol dire che va tutto bene. Ma - chiedevo - che cosa significa Miya Miya? Significa: al 100%… al 100%, nonostante la barca, la benzina, le onde, il sole, la nausea, la paura, i farmaci bagnati, le scarpe perse… Ed io? Mi sentivo al 100%? Ed io? Avrei detto che andava tutto al 100%?». (Tratto da Carmen P.-Valentina T., Miya Miya, Edizioni la Meridiana, pag. 107).
Un giorno due delle mie specializzande, Valentina e Carmen, a quel tempo all’ultimo anno della Scuola di Specializzazione in Malattie Infettive e Tropicali dell’Università di Bari, mi hanno confidato il desiderio di raccogliere in un libro le riflessioni maturate dai giovani medici che come loro avevano fatto esperienza di un mese o più di lavoro sul molo Favaloro di Lampedusa, inseriti nelle operazioni di accoglienza dei migranti e di screening sanitario all’arrivo. Una piccola parte del loro lungo percorso formativo, ma una grande occasione di crescita, non solo professionale.
Ho accolto il suggerimento, e ne è nato un lavoro collettivo, a più mani, in cui abbiamo provato a condividere ogni scelta, partendo dal chiederci se fosse giusto rendere pubblici i ricordi preziosi che ciascuno di noi custodiva dopo aver lavorato sul molo: il timore era quello di usarli impropriamente, scivolando in una sorta di autocelebrazione, per giunta costruita sul dolore di cui eravamo stati testimoni. Il nostro intento non era neanche quello di suscitare compassione per le persone che tutti i giorni arrivano sulle nostre coste: siamo inondati da queste immagini, come avremmo potuto aggiungervi qualcosa?
Piuttosto desideravamo raccontare in che misura questa esperienza avesse cambiato noi, come medici e come persone. Per questo l’epigrafe iniziale recita: “a tutti coloro che sono in cammino…” per dedicare il libro a quanti, in questo momento ed in ogni tempo della storia, con coraggio intraprendono il viaggio migratorio, partendo dai paesi più remoti per giungere fino a noi: che la strada sia loro propizia. Poi, a quanti sono già arrivati nel nostro paese, dove ancora tuttavia li attende un lungo percorso, non sempre in discesa. Ma la stessa dedica è rivolta anche a noi, ai colleghi, a ciascuno nel proprio luogo di lavoro con le tante difficoltà quotidiane, e a coloro che nella vita non vedono tutto chiaro, non si sentono già arrivati, e accompagnano altri lungo il cammino e a loro volta si lasciano accompagnare.
Miya Miya
Anche sul titolo siamo stati subito tutti d’accordo: sarebbe stato Miya Miya! Perché quella semplice risposta in arabo all’arrivo, che letteralmente suona: “Sto bene al 100%”, ci aveva spinto ad interrogarci non tanto (o non solo) sulle cause dei fenomeni migratori o sulla debolezza delle nostre politiche di accoglienza, ma innanzitutto sul nostro personale sguardo sul mondo. Miya Miya era per noi il simbolo di un modo differente di approcciarsi alla vita, che abbiamo intuito e intravisto sul molo, e che ci ha toccato così nell’intimo da volerne parlare ad altri.
Credo che la stessa Lampedusa, con la sua bellezza ma anche il suo isolamento, costringa a guardarsi dentro. Nei mesi estivi dal molo Favaloro, a cui si accede solo se autorizzati, è possibile osservare la vita turistica dell’isola come dall’esterno, sentendosi quasi in un mondo parallelo. Il pomeriggio una barca di “pirati” esce dal porto, carica di turisti festanti in costume da bagno, che ballano con gli aperitivi in mano e la musica ad alto volume. E mentre la nave va al largo, talora incrocia un’altra barca che arriva in direzione opposta, carica di migranti, che agitano le mani al cielo, anche loro festanti per il vicino approdo. Allora tu guardi questa scena e non sai più bene chi sei, e pensi: a quale di questi due mondi appartengo? Sono turista o migrante? ed è una contraddizione non solo esteriore.
Siamo tutti talmente concentrati nel tentativo di tenere ogni cosa sotto controllo: le mail, i messaggi, l’orario, la salute, l’abbinamento di colore dei vestiti: forse questo ci dà l’illusione di essere potenti e autosufficienti. Ogni imprevisto ci infastidisce, un ritardo, un inammissibile sciopero dei trasporti. Il divertimento è dovuto, il fallimento è intollerabile, la malattia è un’inspiegabile ingiustizia perpetrata ai nostri danni.Poi sei lì sul molo e vedi questa gente che si è messa in acqua senza nessuna certezza, senza bagaglio, solo con una speranza nel cuore. Perché, ti chiedi? Lo dico con le parole di Giorgia:
«Pronti a toccare la terraferma. Prima i malati, i bambini, le donne, poi tutti gli altri. Qualcuno non si reggeva in piedi, qualcuno tremava, qualcuno aveva sete, qualcuno si accasciava. Tutti, indistintamente, baciavano la terra, in ginocchio, baciavano la terra. Essere arrivati. Solo questo contava. Io l’avrei capito dopo. Mi chiedevo se fossero consapevoli che quello fosse solo un primo piccolo passo verso una vita diversa, ma altrettanto difficile, e che, nonostante noi cercassimo di fare del nostro meglio, la realtà restava altrettanto dura su quella terra sulla quale poggiavano ginocchia e piedi bagnati. Col passare dei giorni ho compreso che non c’era pensiero che potesse rattristare chi, giorni prima, dopo anni di torture, era salito su quei barchini di lamiere in ferro, con solo i suoi vestiti addosso, con l’unico obbiettivo di arrivare, di credere, che oltre il mare, oltre quella terra di dolore, ci potesse essere un posto in cui la vita potesse essere celebrata e non attentata in ogni momento. Da quel momento ogni sbarco, ogni timido sorriso, l’avrei portato dentro per il resto della vita, senza pensare mai di poterlo dimenticare» (Giorgia M., giugno 2023, pag 62)
La bellezza degli anawim
Che cosa abbiamo avuto il privilegio di osservare da vicino sul molo, pur in mezzo a tanto dolore e a tante storie drammatiche e di morte? Ricordo che c’è una parola nella Bibbia per chiamare i poveri che non confidano in loro stessi, nei loro mezzi o nella loro intelligenza e bravura, ma hanno fiducia in Dio e nella Vita. Credo che sul molo si possa vedere con i propri occhi, e capire col cuore, chi sono gli anawim, persone piccole, insignificanti, che arrivano curve sotto il peso delle tante difficoltà, ma con lo sguardo diretto verso l’alto e le mani rivolte fiduciose al cielo, persone piene di dignità senza arroganza, che la povertà non abbrutisce ma apre al futuro, persone che nonostante tutto sanno scorgere in ogni svolta una nuova possibilità anziché uno stupido contrattempo. Io non so se confidano in un qualche Dio, ma di sicuro credono nella possibilità di una Vita migliore.
Anche ascoltando e guardando i pescatori anziani di Lampedusa, una sera ho compreso perché ci sono verità nascoste a chi si crede ricco e potente, e che invece sono percepite senza alcuna difficoltà dai cuori più semplici, che non fanno calcoli per difendersi dagli altri, perché come scrive Roberta: «Tutto sembra routinario, ma l’incrocio dello sguardo di ogni fratello o sorella che accogli ha dello straordinario» (Roberta N., luglio 2023, pag 67).
Forse è solo l’incontro occhi negli occhi con queste persone che può aiutarci a rompere in noi stessi il muro di indifferenza a cui ci abitua la nostra vita borghese. Concludo perciò con le parole di Angela: «Ognuno di loro aveva una cosa in comune oltre la stanchezza del viaggio, la sete e la fame, ciascuno di loro aveva gli occhi pieni di speranza e di sogni. Ognuno di loro mi ha fatto desiderare di essere la miglior persona per me stessa e per loro, affinché, in questo lungo viaggio, potessero dire di essersi sentiti accolti almeno (e spero non solo) una volta» (Angela A. maggio 2024, pag.95).
Dell’Autrice segnaliamo:
Miya Miya. Riflessioni da
uno scoglio di confine
Edizioni la Meridiana,
2025, pp. 140