Se ognuno ha la sua nuvola, speriamo che non piova

Bolle informative, profonde falsità e altre mostruosità tecnologiche

 di Francesco Occhetta
gesuita, segretario generale della Fondazione Fratelli tutti

 La fiducia nella tecnologia e la diffusione di fake news sono come l’asta di un pendolo che oscilla tra il “prima” e il “dopo” la verità (dei fatti), senza più volerla riconoscere.

Si è come immersi in sabbie mobili in cui la cura per la ricostruzione dei fatti, l’aderenza alla realtà e il controllo delle fonti cedono il passo alla cultura della post-verità in cui contano le credenze, le emozioni e la logica degli algoritmi.
Così nella percezione della realtà il post-vero e il post-falso vengono posti sullo stesso livello. Anche il racconto dettagliato dei fatti è ritenuto post-vero, nel senso che è sempre verosimile. Hannah Arendt, la scrittrice tedesca perseguitata dai nazisti perché ebrea, lo aveva previsto: «L’effetto della sostituzione della verità dei fatti con la menzogna non è solo che le bugie vengono accettate come verità e la verità considerata una bugia, ma che il senso con cui ci orientiamo nel mondo reale – e la differenza tra vero e falso è uno degli strumenti mentali che utilizziamo – viene distrutto». Per questo il genio malefico della propaganda nazista, Joseph Goebbels, aveva costruito l’ascesa di Hitler su una massima: «Una menzogna ripetuta all’infinito diventa verità».

 Ognuno ha la sua nuvola

La sfida è ancora più complessa quando la macchina invece di essere alleata si pone in competizione all’uomo. Lo dimostra la tecnologia del deepfake - l’unione del deep learning (apprendimento profondo) con “fake” (falso) – che permette di generare contenuti mediatici (video, audio, immagini) artificiali o manipolati da renderli difficili da distinguere dalla realtà. Nel mondo digitale, la verità è spesso una merce in saldo. La logica prevalente della Rete è semplice: ciò che attira l’attenzione viene mostrato, ciò che emoziona – anche negativamente – genera profitto.
Quando diventa impossibile distinguere il vero dal falso, quale ruolo può avere la fiducia? Sul tema il Parlamento europeo ha rilasciato alcuni consigli per smascherare le fake news. Tutto parte dalla responsabilità personale chiamata a verificare l’attendibilità dell’organo di stampa e dell’autore, delle fonti e delle immagini che si consultano. È necessario, poi, riflettere prima di ri-condividere storie o spiegazioni che rischiano di essere false. Infine, il Parlamento europeo invita a segnalare le false notizie per poterle contrastare. Per attivare questi processi è indispensabile, dunque, molta educazione, che parta dalle scuole. In un mondo in continua evoluzione tecnologica, sorge una domanda: le agenzie educative, come scuole e oratori, riescono a tenere il passo con i rapidi cambiamenti, preparando adeguatamente studenti, famiglie ed educatori alle sfide del futuro digitale?
Viviamo, direbbero i sociologi, nell’era “biomediatica”, ciascuno è accompagnato dalla propria “nuvola”, che custodisce e amplia la memoria umana. Il mezzo - piccoli e potenti smartphone o agili tablet - diventa una vera e propria “applicazione” del corpo, una protesi capace di accrescerne le prestazioni. Non c’è nulla di virtuale, tutto è reale: la connessione, la tecnologia cloud, la delocalizzazione della memoria con i contenuti digitali in una sede remota, sono i nuovi strumenti per comunicare e comunicarsi con il mondo. Anche l’invito a “spegnere i telefonini” che si ascolta all’inizio di uno spettacolo, in aereo o nelle chiese, viene spesso eluso non tanto per maleducazione ma per una paura inconscia di rimanere isolati dal proprio mondo. È la paura di perdere la funzione di accesso agli spazi di vita conquistati nelle proprie community, in cui ci si associa per lavoro, per interessi o passioni.

 Né neutrale né non belligerante

Lo ribadiamo, in molti si fidano delle notizie che confermano le proprie opinioni o che provengono da fonti che percepiscono come familiari o autorevoli, tuttavia, la percezione non sempre corrisponde alla verità e alla realtà. Gli algoritmi generano contenuti per un “coinvolgimento istintivo”, ma per diventare persone occorre un “equilibrio affettivo”.
Purtroppo si pensa che la tecnologia sia neutrale, si dice, infatti, “è solo uno strumento”. Ogni tecnologia, invece, è costruita con logiche e interessi, spesso economici, come la monetizzazione dell’attenzione. Gli algoritmi decidono quali contenuti vedere, quali nascondere, quali amplificare. Si generano così le cosiddette echo chambers, le “bolle informative”, in cui l’utente è esposto solo a ciò che conferma le sue opinioni, rendendo più difficile distinguere tra vero e falso. Bastano pochi minuti perché appaiano pubblicità collegate a conversazioni che abbiamo appena avuto. Tuttavia influencer, opinionisti improvvisati o generatori di fake news non possono equipararsi a giornalisti, a esperti o a scienziati. Occorre scegliere “chi” e “cosa” è autorevole e certificato per condividerlo, altrimenti la democrazia liberale imploderà.
I critici ritengono che nel tempo della frammentazione del “noi” rimanga la solitudine dell’“io” che, come una monade, cerca altre persone sole. Gli ottimisti vedono nella tecnologia un potenziamento di ciò che siamo. Quali i rischi? L’esplosione del narcisismo, che considera la Rete una vetrina e non una finestra sul mondo, e la regressione da “cittadino” a “consumatore”.
Il tema tocca la geopolitica: lo stesso Brad Smith, presidente di Microsoft, nel Dizionario della fraternità, curato dalla Fondazione Fratelli tutti, propone di investire nell’equità per generare e sviluppare l’IA.
Nel Dizionario in cui hanno scritto molti esperti di comunicazione emergono sette “C” su cui investire: conoscenza e conversazione, condivisione e cura, collaborazione, contesto e cultura.

 La community è il navigatore

Si dice che la Rete sia una trappola per le mosche e una casa per i ragni, il pericolo è muoversi senza conoscere le sue strade. L’antidoto è quello di non rimanere solo, ma parte di una community volta a costruire il bene e a condividere lo stesso umano destino; la fiducia nella tecnologia, ricordava Papa Francesco, avviene quando favorisce «l’incontro in carne e ossa che vive attraverso il corpo, il cuore, gli occhi, lo sguardo, il respiro dell’altro».
Lo scenario è destinato a cambiare, il fenomeno che vede i giovani allontanarsi dai social media si manifesta in diverse forme. La più nota è il digital detox, la scelta volontaria di staccarsi dai dispositivi digitali per stare meglio. Un’altra scelta a cui si assiste è quella del “disimpegno dai social media”, in cui si eliminano i profili dalle piattaforme per garantire la tutela della privacy e la cura della salute mentale. Si parla anche di Generazione privacy a cui appartengono i giovani della Gen Z, e di silent disengagement che indica un ritiro discreto, un consumo passivo di contenuti, senza interagire attivamente.
Il trend indica la nostalgia della ricerca della verità che nasce dall’incontro autentico con l’altro. Persone come Francesco d’Assisi o Ignazio di Loyola non hanno conosciuto la Rete, né i social, ma ci hanno lasciato un criterio per discernere: lo sguardo evangelico sulla realtà. In un mondo frammentato hanno scelto di non alzare la voce, ma abbassarsi all’altro; di non imporsi, ma servire; di non manipolare, ma testimoniare. Questa è la via francescana: abitare il mondo digitale come “fratelli minori”, portando uno stile di verità umile, di ascolto paziente, di comunicazione semplice e umana. Non per fuggire dalla tecnologia, ma per renderla strumento di fraternità.
Bauman ce lo ha insegnato quando scriveva che «la tecnologia ci dà la sensazione di avere il controllo, ma non ci insegna a fidarci». Le fake news prosperano nel terreno della paura, della diffidenza e dell’isolamento, nella reazione impulsiva, nella rabbia condivisa, nella superficialità emotiva. La fiducia cresce invece nel servizio della fraternità, della parola scambiata e in progetti condivisi. La comunicazione nasce sempre da un cuore pacificato sia personale sia sociale e da parole che non feriscono.