Cara Chiesa, ti scrivo

Il punto di vista - critico, energico - di alcuni giovani sulla Chiesa

 di Gilberto Borghi
della Redazione di MC

 In preparazione all’esame di Stato delle scuole superiori, la legge impone di organizzare, nei mesi precedenti la fine della scuola, delle “prove d’esame”, ciascuna pensata per far sperimentare agli studenti il “come sarà”.

Sette anni fa, quando ancora insegnavo religione, una mia collega di lettere decise, tra le altre tracce, di proporne anche una sul rapporto tra i giovani e la fede. Io sperai che pochi, pochissimi, la scegliessero, perché ovviamente non sarei riuscito a resistere alla tentazione di leggere gli elaborati degli studenti. Non potevo certo farmi scappare una occasione così per avere il loro punto di vista sulla Chiesa e dintorni. Per giunta proposto da un docente non di religione, che perciò incrociava anche coloro che non sceglievano la mia materia. Come si dice, “il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”. Su un totale di 54 studenti di tre quinte, scelsero questa traccia in 31. E la lettura di quegli elaborati, ancora oggi, rimanda una descrizione molto interessante di come i giovani vedono la Chiesa.

 Cercare l’umanità

Di sicuro tra le tematiche evidenziate nei loro elaborati, quella sulla Chiesa riceve i giudizi più duri e mostra una distanza con il loro vissuto discretamente alta. Nonostante questo però ho la sensazione che i dati siano migliori rispetto alle mie attese. Cominciamo dal negativo. Ovviamente si conferma il lato problematico nel riconoscere la Chiesa come “messaggera” di Dio: «La Chiesa non ha mai rispecchiato la bontà e la parola di Cristo». Ed anche: «Sono cattolica, credo in Dio, ma penso che Dio e la Chiesa sono due entità distinte». E mi colpisce come il giudizio negativo vada direttamente al cuore della Chiesa e del suo esistere, supponendo una specie di “nestorianesimo” ecclesiale, in cui la dimensione umana della Chiesa non è in grado di veicolare quella divina. E non tanto per gli innumerevoli dati umani di “peccato”, che nascondono Cristo invece di rivelarlo, che pure vengono citati da loro. Quanto più per una specie di impossibilità strutturale di essere “parola” di Dio per l’uomo: «Se leggo il vangelo sento un Dio che mi piace; poi nella Chiesa non lo ritrovo mai, perché quello della Chiesa è un Dio molto meno umano». Ciò che mancherebbe, perciò, alla Chiesa per essere testimone credibile di Dio è un maggiore tasso di “incarnazione attraente”. In due direzioni soprattutto.
La prima. «La Chiesa si è sempre voluta mostrare come una struttura perfetta che non comprendeva al suo interno alcun tipo di difetto». Che ovviamente è rilevato da loro come un problema. Perciò quello che si chiede è di essere più umana, nel senso di una maggiore “somiglianza” agli uomini e alle donne quotidiane, della “strada”. «Questa religione di duemila anni fa ha bisogno di ritrovare qualcuno che parli in mezzo alla gente e con la gente, affiancandosi ai problemi di ogni giorno». Confermato dalla dichiarazione di molti di loro, in cui apprezzano maggiormente la testimonianza di monaci, suore e frati, più che di preti e vescovi, perché percepiti «più a contatto con le persone e i loro problemi e meno influenzati da questi. Sono più umili e meno ricchi». Lasciando da parte quanto sia realistico questo giudizio, rilevo però che proprio coloro che sarebbero più “lontani”, perché votati totalmente a Dio, paradossalmente sono percepiti meno distanti di coloro che appartengono all’“istituzione ecclesiale”. Ci sarebbe molto da riflettere su questo.
La seconda. Ancora più puntuale e provocatoria. «Sono una credente, ma non mi fido della Chiesa, perché non ho mai visto da essa qualcosa di positivo che possa dare una svolta alla vita di un adulto». Che coglie uno stile di fede diffuso, in cui conta molto di più la stabilità e la continuità, rispetto al rinnovamento e al cambiamento. Si potrebbe azzardare che qui c’è la richiesta di una Chiesa capace di convertirsi e di convertire, mostrando come anche un adulto possa “cambiare mentalità” e rinnovare il senso della propria vita. Ancora una volta si mostra come la fede, agli occhi dei miei studenti, sia possibile se si esce dal “già dato”, da ciò che “rassicura” e “conserva”. Una specie di traduzione della richiesta di papa Francesco di “uscire verso le periferie”. Insomma hanno bisogno di vedere che chi crede sa e può cambiare marcia. Sa e può non farsi fagocitare dallo scontato, per mostrare una faccia diversa del vangelo, che sa di “conversione” e di novità di vita.

 Questa non è un’azienda

E già qui potremmo dire che questa generazione ci dà una lettura molto più profonda e centrata di quanto normalmente si dice. Ma qui comincia il positivo. Questi ragazzi osano darci indicazioni su come recuperare queste difficoltà: «La Chiesa cattolica nasce e cresce nella venuta di Gesù sulla terra, basandosi sui suoi insegnamenti. O non più?». Piccola domanda che centra il problema di fondo: il recupero della centralità di Cristo. E ancora, osando indicare anche una conseguenza di ciò: «La Chiesa dovrebbe essere solo un tramite, come anche i preti. Se è in crisi è perché non sta mettendo in pratica l’ascolto. Prima di tutto della Parola di Gesù, e poi anche degli uomini con cui dovrebbe parlare». Per finire con un perentorio: «La Chiesa non è un’azienda che vende un prodotto». Come non condividere?
Ma osano darci indicazioni anche su come potrebbe essere una Chiesa che prova a vivere una nuova evangelizzazione. Intanto hanno molto chiaro quello che non andrebbe fatto: «Spingere qualcuno a credere può dare solo effetti negativi». O anche: «Un atteggiamento propagandistico rende impossibile il dialogo e quindi non ci interessa quello che ci viene detto». E per atteggiamento propagandistico hanno un’idea ben chiara: «Si capisce subito se un prete è lì per convincerti o se vuole condividere la sua esperienza». Dove il confine viene tirato sulla base di percezioni non verbali, di cui spesso non sono consapevoli, ma che fanno da filtro essenziale per accettare o rifiutare colui che parla. Percezioni che manifestano l’intenzione profonda che anima l’evangelizzatore, molto più delle parole o dei linguaggi utilizzati. «Non sopporto quando un prete parla come se fosse un libro stampato, e non mi dice nulla di quello che vive davvero lui».
Questo mette già in campo quello che, secondo loro, è l’elemento principale che rende efficace l’evangelizzazione della Chiesa. «Occorrerebbe creare una nuova forma di dialogo tra giovani e fede, in modo che un prete ci ascolti e ci racconti cosa è Dio per lui». E ancora più chiaro: «Chi ha fede trasmette la sua bellezza interiore con la propria vita, non dovrà convincere o costringere, sarà lui ad essere la calamita. Papa Francesco per me ha la calamita». Che dice bene quale sarebbe la porta a cui dovremmo bussare, quella della comunicazione vera e sincera tra due persone che si incontrano e magari si scontrano e in questo si raccontano, in modo che la percezione di Dio che uno ha finisca per contagiare l’altro. Un’evangelizzazione efficace oggi nasce solo dal desiderio di raccontare le meraviglie di Dio nella mia vita e nulla più. Senza nessun desiderio di “produrre effetto” sull’altro.

 Con gradualità

Questo elemento di fondo si traduce per i giovani in tre indicazioni pratiche.
La prima: «Forse avremmo solo bisogno che qualcuno ci ascolti davvero». E ancora: «Il voler dar risposte non può essere lo strumento per diffondere Dio, ma l’ascolto delle persone sì».
La seconda: «Non cerchiamo una spiegazione sull’esistenza di Dio o risposte e valutazioni, ma cerchiamo il desiderio di ascoltare e capire quello che abbiamo da dire. Dopo, allora, ci può essere data una risposta, non prima». Anticipare il messaggio di Cristo a chi non ha ancora aperta e matura la domanda sul valore e il senso di sé stesso è come dare le “perle ai porci”. E se poi le perle finiscono distrutte e calpestate non possiamo lamentarci.
La terza: «Avere fede o no è una scelta difficile e la mentalità per decidere davvero la si raggiunge solo dopo una certa età. Ecco che invece la Chiesa inizia il catechismo fin da piccoli e quando ce ne sarebbe più bisogno non lo fa più». Forse i dati non sono del tutto esatti, ma resta vero un fatto: la gradualità nella fede non è un “optional” e l’adesione a Cristo non arriva una volta per tutte. E anzi, forse questi ragazzi ci ricordano la cosa più importante della fede: o cresce e cambia col crescere delle persone oppure muore.