Lo sconfinato sguardo di chi guarda dal confine

La trasmissione radiofonica “Uomini e profeti”, alla ricerca della vita

 di Brunetto Salvarani
teologo e saggista

 «È un’indagine sulle ragioni del credere. Nell’esercizio della laicità sta la possibilità di vivere la propria fede, cercando dentro di essa la speranza, la libertà, la lotta alla morte.

La luce fa fatica a farsi percepire da noi»: così Gabriella Caramore spiegava il senso di un suo libro del 2008 intitolato La fatica della luce (con un sottotitolo illuminante, in quanto strategico per lo sguardo che vi viene adottato: Confini del religioso). Quello di Gabriella è un nome ben noto a quanti seguono con passione la radio, e in particolare Radio Tre: dal 1993 e per molti anni, infatti, è stata lei – padovana di nascita e romana di adozione, studi filosofici con tesi su L’anima e le forme di Lukàcs – l’autrice, ma anche l’apprezzata voce, di Uomini e profeti.
Un programma speciale, che da più di tre decenni propone di sabato e domenica alle 9.30 un corpo a corpo fra Dio e l’umanità, accettando coscientemente il rischio di muoversi su spazi aperti, senza cedimenti alle mode e interrogando i grandi codici di ogni tradizione con una radicalità davvero rara. Soprattutto qui da noi, dove da decenni le chiusure di stampo clericale, e quelle laiciste, la fanno da padrone nel dibattito pubblico. Purtroppo. Secondo il teologo valdese Paolo Ricca «si tratta della migliore trasmissione religiosa diffusa oggi in Italia dai mezzi di comunicazione di massa, pubblici e privati. È anche l’unica – ripeto: l’unica – che dia voce alle minoranze religiose presenti nel nostro Paese».

 La fatica della luce

Sfogliando le pagine de La fatica della luce viene spontaneo porre a confronto le riflessioni dell’autrice con il suo impegno professionale in radio. Appare evidente, in effetti, che il fare radio, per lei, è assai più di un lavoro in senso tradizionale, com’è facile intuire per quanti si sono abituati al suo rigore, la sua acribia, la sua indisponibilità ad accontentarsi della risposta più semplice, sia pur corretta. L’esatto contrario delle regole minime della comunicazione radiotelevisiva odierna! Ed è per questo che, dalla lettura di quelle pagine, non si può uscire indenni né rimanere delusi, ma semmai confermati nell’urgenza di accettare la scommessa di Gabriella. Quella di quanti, lo spiega nella premessa, decidono di guardare alla posizione di chi sosta sul limitare delle cose, non per amore dell’inappartenenza, ma per fiducia che si possa, esitando, dilatare lo sguardo e la conoscenza.
È da lì che si è avventurata nelle regioni del credere, persuasa che nell’esercizio della laicità stia, per ciascuno di noi, la possibilità di vivere fino in fondo la propria fede, di cercare Dio e l’uomo lungo la stessa impervia, dolente, esaltante rotta. Ponendosi in ascolto dei linguaggi che ogni creatura umana - nella preghiera, nella verità, nel silenzio - elabora per dichiarare il desiderio di una vita nella libertà, nella speranza, nella lotta alla morte. Infine, la luce e la sua fatica, e il suo nascondersi, nelle esistenze di donne e uomini come nel loro credere (pure faticoso e mai scontato). Sta qui il motivo per cui, prima di ogni sua parola, l’autrice ha scelto di riportare l’immagine di un acquerello del pittore inglese William Turner, che ritrae Venezia durante un viaggio in Italia, colta nel passaggio dalla notte all’aurora: reso mirabilmente dall’artista, a suggerire che l’alternanza fra tenebre e luce non appartiene all’ordine rassicurante dell’evidenza, a un ciclico avvicendarsi dei giorni. Perché, ogni volta, viene rimesso in questione il rinnovarsi della creazione, come se un travaglio desse l’avvio a una storia mai scontata. A una lotta inesausta, e non conclusa. Ed ecco la chiave del titolo, che rinvia al biblico saggio noto con il misterioso nome di Qohelet: «Dolce è la luce, la vista del sole rallegra gli occhi» (Qo 11,7). Subito dopo, però, rileva che «i giorni tenebrosi saranno molti» (11,8), rendendo manifesta la fatica che la luce compie per stendersi sul corpo del mondo.

 Quei fili spezzati

In fondo, La fatica della luce può essere visto come una sorta di Simposio del nostro tempo, il cui argomento non è l’amore, come in Platone, ma la ricerca reciproca di Dio e dell’uomo. Intorno alla quale Gabriella convoca una gran messe di testimoni autorevoli, che sottintendono alcune sue preferenze dichiarate: da Kierkegaard a Rilke, da Simone Weil a Hammarskjöld, da Jonas a Bonhöffer a Florenskij, a tanti altri. Ma soprattutto, direi, Sergio Quinzio, cantore dolente della sconfitta di Dio, l’incontro con il quale lei ammette essere stato decisivo per passare dalla formazione cattolica tiepida in cui è cresciuta alla fase in cui «il suo paesaggio mentale ha cominciato a rianimarsi»; e grazie al quale si è messa «a guardare all’orizzonte religioso come a un’esperienza e un cammino che riannodavano fili spezzati».
Di lui viene citato un pensiero di rara intensità: «Io credo fermamente che si debba avere pietà di Dio, che si debba guardare a lui come a colui che muore dal dolore di non poterci salvare». Un libro, dunque, denso di itinerari possibili. Per citarne appena qualcuno, la positività di sostare sul confine, l’interrogazione vicendevole fra atei e credenti e il senso della sconfitta di Dio, a fronte di una sua presunta odierna rivincita; la ricerca di profeti in un contesto che fatica sempre più a riconoscerne la presenza e il vincolo di consustanzialità fra la forma poetica e l’espressione della preghiera; l’invito insistito ad ascoltare il silenzio e il significato di sperare l’insperato nel quadro di una società, quella occidentale post-moderna, che sembra aver disimparato a sperare.

 Il sabato delle storie

Per un anno, a partire dal settembre 2015, ho avuto l’onore di essere stato affiancato a Gabriella, nella conduzione della puntata del sabato (intitolata Storie), mentre lei  continuava a presiedere quella della domenica, dedicata alle Questioni. Quando, a ottobre dell’anno prima, lei stessa mi aveva ventilato questa proposta, mi ero schermito: sia perché non ci avevo mai pensato, pur essendo un fedele ascoltatore della trasmissione, e pur essendo stato alcune volte da lei invitato come ospite; sia perché, in qualità di conduttore radiofonico, mi sentivo piuttosto arrugginito, avendolo fatto, all’epoca gloriosa delle prime radio libere, oltre trent’anni prima (ed erano trasmissioni sulla musica giovane, fra il pop e il cantautorato, nulla a che vedere con il format di Uomini e profeti).
Poi, ripensandoci con un po’ di calma, avevo cominciato a prendere in esame seriamente quell’invito: fino ad accettarlo, incurante, come spesso mi capita, dei rischi connessi… Ed è cominciata l’avventura, che mi ha condotto, tutti i sabati mattina, alla sede RAI di Bologna, ad attraversare i problemi dell’attualità religiosa con due o tre ospiti, in genere collegati telefonicamente: dal terrorismo di marca jihadista alla situazione delle cosiddette minoranze religiose in Italia, dai Paesi emergenti in relazione alle dinamiche geopolitiche (Turchia, Tunisia, Burkina Faso, Colombia, Brasile, e così via) fino al Sinodo sulla famiglia, al Giubileo della misericordia, al diaconato femminile… per concludere, agli inizi di luglio, con il lancio dei cinquecento anni dall’affissione delle 95 tesi da parte di Martin Lutero sul portone della chiesa di Wittenberg.
Nella convinzione che la grande sfida dei nostri giorni cattivi sia quella di evitare una lettura delle differenze esistenti, talora profonde, come uno scontro apocalittico tra Bene e Male, e di rifiutare sempre la demonizzazione dell’altro. Con i credenti chiamati a guardare le diversità che da sempre accompagnano l’esistenza umana sulla terra come potenziali arricchimenti reciproci verso una vita piena d’amore, quell’amore che per tutti i cristiani caratterizza l’essenza di Dio. Processo lungo, complicato, faticoso, che Uomini e profeti continua ad accompagnare a tutt’oggi. Del resto, come si legge nella Mishnà, in un detto di rabbi Tarfòn: «La giornata è corta e il lavoro è tanto; gli operai sono pigri, il compenso è abbondante e il padrone di casa incalza. Ma non è tuo il compito di completare l’opera, né sei libero di esentartene».

 

 Dell’Autore segnaliamo
Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano
Laterza, Tempi nuovi, 2023