Lo diceva Keplero

Comunione e missione, vissute in Cristo, sono due fuochi della stessa elisse

 di Davide Brighi
docente di teologia all’ISSR di Forlì

 Fin dai tempi dell’Evangelii Gaudium (2013) Papa Francesco invita tutta la Chiesa a concepire il suo essere popolo di Dio nella dinamica dell’uscita, della missione:

nel mirino del messaggio del Pontefice, ci sono le false sicurezze di chi crede di aver capito già quale sia il cuore dell’esperienza cristiana; le concezioni idolatriche di una religiosità che afferra il mistero e pensa di possederlo; una auto-referenzialità che permea strutture, a volte troppo ingombranti e macchinose, spegnendo di fatto l’esplosività dell’annuncio del Risorto.
Lo « sguardo alle periferie », così come è diffuso nei commenti pastorali definire tale invito, ha però prestato il fianco ad una notevole ambiguità di interpretazioni, esplose in vari significati in questi dieci anni. A volte sembra che manchi un dialogo sincero tra chi «in trincea» sperimenta la profeticità della Chiesa e la fecondità del Vangelo, e chi invece ne promuove una progettazione dentro a un orizzonte organizzativo, interno alla società, e «rappresenta» la Chiesa.
L’invito del Papa a «prendere l’iniziativa» ha portato alcuni, dall’altra parte, a cavalcare un indistinto primato del fare la carità, togliendo energie a un pensiero critico sulla fede, in favore di una «idiozia» della Chiesa, arroccata in un suo mistico perdersi, sulla scia di quanto dice Dostoevskij, nell’omonimo romanzo l’Idiota. Scrive Papa Francesco: «La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore, e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» (Evangelii Gaudium, 24). 

La strada sinodale

La strada giusta è allora il dialogo innescato dal cammino sinodale: questo strumento non porta certo ad un livellamento verso il basso, come alcuni denunciano, della qualità teologico-pastorale dell’azione delle nostre chiese; queste accuse rivelano come molti cristiani siano disperatamente aggrappati ad un presunto «centro», sia esso pastorale o teologico, dal quale non si vorrebbero distaccare per andare in uscita verso le periferie.
Gia al convegno ecclesiale di Palermo del 1996 si richiamava la necessità in ordine alle sfide pastorali del nostro tempo di un rinnovato dialogo tra pastori e fedeli; per un vero discernimento comunitario infatti il ruolo dei laici è chiave: «[Il discernimento comunitario] edifica la Chiesa come comunità di fratelli e di sorelle, di pari dignità, ma con doni e compiti diversi, plasmandone una figura, che, senza deviare in impropri democraticismi e sociologismi, risulta credibile nell’odierna società democratica». La dimensione secolare della teologia e della vita della Chiesa, risulta una vera frontiera per la pastorale: la credibilità della struttura ecclesiale, nel contesto contemporaneo, risulta una priorità, secondo la sensibilità di molti laici, emersa durante il primo anno di cammino sinodale.
Forse si riespone così la grande e discussa svolta terminologica conciliare riguardo alla Chiesa come Regno di Dio, Regno di Cristo e Popolo di Dio. A 60 anni dall’apertura, infatti, del Concilio Ecumenico Vaticano II, non possiamo non ricordare le aspre discussioni in merito alla Costituzione dogmatica sulla Chiesa che portarono a un vero capovolgimento di orizzonti.

 L’ascolto e l’annuncio

Il primo capovolgimento, il più eclatante, fu l’inversione del capitolo sulla dimensione gerarchica della Chiesa con quello sulla sua natura, come emerge dalla Scrittura: prima si definisce cosa sia la Chiesa nel progetto di Dio e poi come essa sia governata. Il secondo, e forse ancora più importante, fu lo spostamento del faro di attenzione non sulla Chiesa in quanto tale ma su Cristo; celebre è l’immagine patristica della Chiesa come «luna», che riflette la luce del sole di Giustizia, Cristo Signore.
In questo contesto, di una vera e propria rilettura dell’identità della Chiesa, si inquadra la formula che unisce l’assemblea dei convocati con la comunità apostolica inviata ad annunciare il Cristo Risorto: la Chiesa di Cristo «sussiste» nella Chiesa cattolica. Questo legame misterioso che trasforma i discepoli in apostoli è emerso poi con forza al sinodo sulla «Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede» (2012); nel Messaggio al Popolo di Dio si ritorna sul concetto di credibilità: «L’invito ad evangelizzare si traduce in un appello alla conversione. Sentiamo sinceramente di dover convertire anzitutto noi stessi alla potenza di Cristo, che solo è capace di fare nuove tutte le cose, le nostre povere esistenze anzitutto. Con umiltà dobbiamo riconoscere che le povertà e le debolezze dei discepoli di Gesù, specialmente dei suoi ministri, pesano sulla credibilità della missione».
La comunità dei credenti è sempre infatti una comunità di discepoli missionari nella quale l’ascolto della Parola di Dio (Cristo Parola del Padre) e l’annuncio del Kerygma del Cristo Risorto sono come due fuochi dell’unica ellisse. La vera domanda che emerge dall’invito di Papa Francesco a guardare alle periferie, allora, ha due dimensioni fondamentali: da una parte la Chiesa deve sempre interrogarsi, come Maria Maddalena il giorno della Risurrezione, su dove sia Cristo, su dove sia stato posto oggi. Essa è vedova, come ci ricorda Papa Francesco, e vive una profonda nostalgia del suo sposo. Dall’altra essa si sente affidare dal Signore l’urgenza della testimonianza, con la vita e con le parole, se necessario, ancora prima di essere pronta per affrontare la sfida dell’evangelizzazione, che di per sé è sempre nuova: «va’ e annuncia ai miei fratelli» (Gv 20,1ss).

 In principio è un incontro

Il binomio Chiesa mistero di comunione e missione sembra allora un paradigma frainteso: nella misura in cui porta a pensare che la Chiesa sia al centro di entrambi questi mandati; mentre il vero centro è Cristo Maestro, è Cristo vivo. Alcuni infatti pensano che per costruire la comunione ecclesiale bisogna concentrare gli sforzi in una dinamica intraecclesiale; anche la missione viene vista da altri come un impegno che richiede una formazione degli inviati, che ancora una volta risulta centrato sulla Chiesa.
La vera missionarietà invece nasce dall’incontro vero con Cristo e non da una presuntuosa idea che, essendo battezzati, lo si è già incontrato. La luce dei cristiani, che Gesù riconosce nel discorso della montagna, viene infatti da lui e va verso la gloria del Padre. La domanda di senso profonda diffusa tra la gente non ha infatti il volto che la struttura ecclesiale desidera, ma richiede a tutti incontri personali che ci facciano uscire dalle nostre «comfort zones».
La passione per le periferie, invece, risulta quindi sana quando è passione per Cristo, perché lui è il vero centro decentrato dell’azione pastorale. Presso di lui la Chiesa si riscopre discepola, a partire da lui si riconosce missionaria: nella misura in cui le periferie sono luogo della presenza viva di Cristo oggi, sono anche il vero fuoco di ogni pastorale. Più che un unico centro, Cristo è i due fuochi che nel «mistero» coincidono.