Siamo tutti elefanti

La politica spesso si nutre di violenza, ma siamo noi a imboccarla

 di Giusy Baioni
giornalista freelance

 Da oltre quindici anni, ormai, mi occupo di Africa e ne seguo le vicende.

La politica, a queste latitudini, pare viva un connubio inscindibile con la violenza. Ho talmente tanti esempi che mi si affollano nella mente che non saprei quale raccontarvi: violenza come strumento di controllo, violenza come braccio armato del despota di turno, violenza per sopraffare e soffocare ogni dissenso, per tenere a bada la stampa libera o chiunque osi denunciare. Violenza che si traduce in esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, intimidazioni, minacce.
Anche le opposizioni, cresciute in questo clima, faticano spesso a uscire dalla logica violenta del rovesciamento del potere, del golpe come unica soluzione, delle rivolte armate e delle manifestazioni di piazza aggressive. Dai regimi più dispotici e violenti a quelli più subdoli, che “convincono” a rinnovare il voto sempre per lo stesso padre-padrone, si fatica a individuare vie d’uscita, spiragli di crescita democratica. E laddove ci sono, vengono sistematicamente repressi.

 La sofferenza dei deboli

Per non parlare dei paesi in guerra, preda di gruppi armati, cosiddette “ribellioni”, truppe di ogni genere: la violenza (anche la violenza sessuale come arma di massa, come ci ricorda il premio Nobel Denis Mukwege, medico congolese che da anni “ripara” le donne violate nel conflitto) è atroce strumento di controllo, di rivendicazione, di conquista. “Quando gli elefanti lottano, è l’erba che soffre” recita un proverbio africano. E a lottare spesso non sono solo le truppe governative e i ribelli di turno (raramente si arriva a una guerra vera e propria fra due stati, molto più frequente l’uso intermedio di milizie), ma occulti ingenti interessi internazionali, che sulla pelle della povera gente combattono guerre spietate per il controllo di risorse che poi ci ritroviamo tutti in tasca, in un modo o nell’altro.
In fondo, siamo tutti un po’ complici, dunque. Le violenze perpetrate dall’altra parte del mondo vedono noi come ultimo anello. Noi e il nostro consumismo, noi e i nostri bisogni indotti, noi e il nostro stile di vita “a rate” per avere, avere senza sapere perché. E come. L’ignoranza non è un alibi. Gli strumenti per sapere, ormai, li abbiamo tutti. Ma non sapere fa comodo, ci permette di vivere nella bambagia, fingendo che no, noi non possiamo farci nulla, se nel cuore dell’Africa combattono, se i politici africani sono violenti e corrotti.
Salvo poi lamentarci della presunta “invasione” e sfruttarla per la campagna elettorale infinita nella quale viviamo immersi. Fa comodo avere un nemico, possibilmente impossibilitato a difendersi, contro cui scaricare tutte le nostre insoddisfazioni. Fare fortuna sfruttando la povertà e le disgrazie altrui. Fare campagne d’odio e alimentarle con una violenza verbale senza precedenti, imperterriti e impuniti. La violenza in politica ce l’abbiamo anche noi. Non più fatta di manganelli e olio di ricino. Ma un inarrestabile odio vomitato addosso a tutti, tanto che prima ci si assuefà e poi si cede alla logica illogica del più forte. I paesi poveri, anzi, impoveriti, sono intanto preda di una duplice violenza: quella dei loro capi aguzzini e quella che foraggiamo noi stessi, con le nostre campagne d’odio, mentre indifferenti continuiamo a beneficiare delle risorse che vengono loro sottratte e li condannano a povertà e instabilità senza fine.

   Cercando alternative

Come uscirne? Intanto, smettendo di fare come le tre scimmiette che non vedono, non sentono e non dicono. La consapevolezza è l’antidoto principe all’odio. Sapere, informarsi è indispensabile. Ma non sufficiente. Poi, serve agire. Non trincerarsi dietro il “così fan tutti”. Se c’è un’alternativa, va percorsa. Se non c’è, va inventata. Mai rassegnarsi. Il sistema si nutre di rassegnazione. Ma noi possiamo essere il sassolino nell’ingranaggio.

Le alternative esistono, grazie al Cielo. Costano un po’ di fatica, all’inizio, quando si tratta di rompere con le abitudini. Quando si tratta di cambiare marca, di rinunciare a un prodotto del quale conosciamo l’impatto sulla vita delle persone e sull’ambiente. Basta focalizzarsi sulle alternative, gustarne il sapore doppiamente buono, perché un caffè o un cacao equosolidali sanno di buono e di dignità. L’iphone che qualcuno di voi avrà in tasca sarà pure un super smartphone, ma a che prezzo è stato prodotto? Lo stesso vale per i Samsung, i Huawei… non c’è una marca migliore dell’altra, oggi, nonostante i tentativi di legiferare per rendere tracciabili i minerali rari indispensabili per la tecnologia che tutti abbiamo in tasca. Non c’è una marca migliore dell’altra – dicevo – ma anche qui abbiamo un’alternativa, grazie ad un gruppo di visionari ragazzi olandesi che ci si sono buttati anima e corpo e hanno ideato il FairPhone, il telefono equo, composto di coltan certificato come non proveniente da zone di conflitto. Un mercato di nicchia? Sì. Almeno fino a che non prederemo tutti coscienza che non possiamo centrare il nostro benessere sul sangue e il sudore di migliaia di bambini sfruttati nelle miniere congolesi e di donne stuprate e uccise per il controllo di quei territori da parte dei gruppi armati che si autofinanziano col contrabbando del coltan.

 Cobalto assassino

Lo stesso problema si sta riproponendo in tempi di green economy e presa di coscienza globale del problema ecologico. Parliamo di svolta verde, riconversione dal carbone e dalle fossili. L’industria delle auto elettriche finalmente decolla. Eppure… eppure anche questa auspicabile e necessaria svolta ha il suo rovescio. Per le batterie della auto elettriche serve il cobalto. Tanto cobalto. E le miniere di cobalto, ancor una volta, stanno per oltre la metà delle riserve mondiali in Congo: uno “scandalo ecologico”, lo hanno definito. Uno scandalo tramutatosi in condanna. Il tanto ambìto cobalto viene estratto in miniere improvvisate, in cunicoli scavati senza alcuna protezione, da bambini e ragazzini, scelti per le loro piccole dimensioni, perché possono facilmente infilarsi in quei pericolosi buchi nel terreno, come denuncia fra gli altri Amnesty International.
A che prezzo? Quanto vale la salvezza del mondo? Domande, queste ultime, ancora senza risposta. Che mi tormentano. Nessuno, in questo caso, è ancora arrivato a certificare il cobalto. Amnesty esorta a giungere a una catena di estrazione e produzione etica entro al massimo cinque anni. Io spero che qualche altro gruppo di giovani visionari ci si butti al più presto. Non possiamo, di nuovo, basare la nostra svolta verde sul sangue di innocenti condannati a morte. La violenza, subdola, si annida dappertutto. Anche nelle scelte che ci paiono le più giuste e urgenti.