Esistere per gli altri

I gruppi ecclesiali come luoghi per imparare le relazioni vicendevoli e con il sacro.

 di Gilberto Borghi
della Redazione di MC

 Efficaci perché in comunione

Il tema dei gruppi ecclesiali e del rapporto col sacro è oggi poco frequentato nei dibattiti ecclesiali, ma credo che la sua portata sia molto più grande dello spazio che gli viene riservato. Per comprenderne l’importanza, forse è necessario ricordare un po’ di storia recente della Chiesa in Italia.


Negli anni Ottanta il riferimento concettuale della CEI era Comunione e comunità. E la declinazione che ne venne fu più o meno questa: rinsaldare la coesione interna delle comunità attraverso la comunione, per poter continuare ad essere efficaci in modo unitario anche nella società. La centratura era all’interno della Chiesa, nella libertà reciproca dei vari gruppi, associazioni e movimenti che allora la abitavano. Non a caso nel 1981 usciva un documento CEI dal titolo Criteri di ecclesialità dei gruppi, movimenti e associazioni, a indicare che la questione erano la forma, i modi e la distanza reciproca di essi dentro la Chiesa. Una questione principalmente di libertà nell’unità.
Però, proprio in quegli stessi anni la storia stava aprendo una svolta epocale. La modernità, con il suo dogma della libertà individuale, terminava lentamente. E la post-modernità si annunciava già con la sua tendenza corrosiva sulla unitarietà interna della persona, spostando il baricentro antropologico dalla libertà del singolo da garantire alla identità individuale da ricostruire. La risposta della CEI, negli anni Novanta, fu la scelta del Progetto culturale. Tentativo che stava in piedi sull’idea che l’identità cattolica fosse ancora sufficientemente forte e visibile anche senza una traduzione unitaria socio-politica della stessa. Da lì a poco ci saremmo presto resi conto che le cose non stavano più così. L’identità cristiana era ben lungi dall’essere solida e oggi vediamo come sia proprio questo a generare conflitti ecclesiali che mettono a tema proprio il come e il se essere cristiani.
Perciò anche la questione dei gruppi e movimenti ecclesiali si è spostata. Hanno perso consistenza quelli che si qualificavano come strumento di traduzione sociale e culturale della fede, a partire da un’identità chiara, e hanno preso forza quelli che si connotano come contenitori dove far nascere o rinascere la fede, nel tentativo di rispondere alla nuova richiesta di identità del singolo. Appartenere è diventato il bisogno che presiede alla dinamica di adesione ai gruppi e movimenti, al fine di sapere chi si è. Ma così, in ballo non c’è più solo l’unità della fede, ma la sua stessa possibilità di esistenza, connessa alla propria identità individuale. Che è questione ben più corposa per la Chiesa.

 La crisi del modello identitario

Si apre perciò la questione di oggi sui gruppi e movimenti: quale identità cristiana si produce in loro? Quale fede si genera o si rigenera in loro? E ancora più radicalmente se la fede si dà effettivamente o no, in questi gruppi. In una condizione socio-culturale come la nostra, dove sapere chi si è risulta estremamente complesso, il rischio dei corti circuiti tra fede e identità di sé è immediato. Sia nella direzione di chi, senza volerlo, finisce per usare la fede come strumento per definirsi, col rischio di piegare la fede ai propri obiettivi personali. Sia per chi si annulla come individuo illudendosi di poter esistere solo dentro a quel gruppo. Col rischio che il fatto di essere un gruppo cattolico sia poco rilevante. Sia gli uni che gli altri però hanno in comune l’idea che la loro identità sia qualcosa di definibile in sé e per sé, qualcosa di solido da ottenere in qualche modo e da conservare gelosamente dentro di sé, per poter far fronte alle fatiche, ai rischi e ai colpi della vita attuale.
E qui, forse, emerge la difficoltà maggiore che esiste tra queste forme di ricerca della propria identità presente nei gruppi e nei movimenti ecclesiali di oggi, e la fede cristiana. Il modello identitario che non si può mai eludere, se si vuole davvero mantenersi nella fede di Gesù, è la Trinità. Da quel poco che sappiamo della vita interna di Dio, possiamo riconoscere che le persone trinitarie hanno un’identità di sé sempre e solo relazionale. Il Padre è generazione eterna e infinita del Figlio, non ha un in sé, un’identità da tenere per sé stesso e conservare. Il suo essere è uscire da sé e darsi. Il Figlio, a sua volta vive la stessa dinamica: “non considera un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio”, ma esce da sé fino alla morte, facendo così procedere lo Spirito. Che a sua volta ha come identità solo quella di essere unità intera e globale degli altri due. Nessuno esiste in sé e per sé.
I gruppi e i movimenti invece sembrano ricercare spesso un’identità in sé e per sé, come qualcosa da conservare e proteggere gelosamente, invece di spenderla per chi non è come loro. L’estrema difficoltà di accettare questa prospettiva e di provare a viverla, da parte dei gruppi e dei movimenti ecclesiali, si riflette nella continua necessità di segnalare e presidiare i propri confini, di sottolineare la differenza tra sé e gli altri, più che ciò che li accomuna agli altri, nell’illusione che questo garantisca meglio la propria esistenza. Miopia, questa, che purtroppo attraversa anche la Chiesa più in generale, fin dai fedeli più ordinari. Basterebbe vedere la fatica di fare i conti con l’immigrazione e col messaggio che su questo Francesco continua a rimandare instancabilmente.
Il problema è che l’identità del cristiano è un’identità da spendere, non da tenere per sé. Sta in piedi su un’appartenenza, quella alla Chiesa, che non è mai pensabile come stare da una parte del tutto, rispetto ad eventuali altre parti, ma sempre come prendere parte al tutto. Cattolico è un aggettivo che qualifica proprio in questo senso la Chiesa: essere luogo dell’intero, di tutta la vita e di tutti i vivi.

Capaci di uscire da se stessi

E qui si capisce come lo stile di rapporto col sacro sia il discrimine per costruire un’identità inclusiva o escludente. Se l’esperienza del sacro si connota solo come consolazione, conferma, protezione, riconoscimento, difficilmente sfugge al rischio di essere usata per consolidare un’identità in sé e per sé, esclusiva, che spinge verso relazioni interne di sterile identificazione, che non generano vita. E la celebrazione del sacro finisce per essere una potente conferma che è giusto sottolineare di essere diversi dagli altri. Il Gott mit uns (Dio è con noi) di terribile memoria è dietro l’angolo.
Se invece l’esperienza del sacro si connota anche come stimolo, scuotimento, destabilizzazione, appello, allora si può aprire la disponibilità ad una identità per l’altro, inclusiva, che spinge verso relazioni interne di feconda fratellanza, che si dilatano per forza oltre i confini, anche verso chi non è come noi. E qui possiamo dire, «Noi siamo per Dio», nel senso trinitario già visto, dell’essere per l’altro. Ma non è forse questa la direzione di ogni incontro col sacro che la bibbia ci mostra? Da Abramo all’ultimo degli apostoli l’effetto del rapporto con Dio è sempre lo stesso: “Esci dalla tua terra e va’ dove io ti indicherò”. Non esiste cristianesimo possibile che non sia così. Anche recentemente, nel discorso al clero e ai laici nella Cattedrale di Cesena, Francesco si esprime così: «Quando l’amore in Cristo è posto al di sopra di tutto, anche di legittime esigenze particolari, allora si diventa capaci di uscire da sé stessi, di decentrarsi a livello sia personale che di gruppo e, sempre in Cristo, andare incontro ai fratelli».