Maestro, dove abiti?

Un interrogativo percorre la bibbia: dove vuole dimorare Dio?

 di Alessandro Barchi
biblista, membro della Piccola Famiglia dell’Annunziata

 È noto che il testo che più mette in evidenza il confronto cruciale fra Tempio e Tenda, come luogo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, è il capitolo settimo del secondo libro di Samuele.

Un testo fondamentale che la liturgia cristiana rilegge in più occasioni – nel tempo di Avvento e nelle solennità di Maria, e di san Giuseppe – per la sua profonda connessione con la figura di Cristo. Gesù è il perfetto compimento di quella stirpe davidica, per cui solo Gesù potrà essere chiamato a pieno titolo “Figlio” e riconoscere in Dio il suo “Padre”, come preannunciato dal profeta Natan.
Ma è anche il testo che mette in scena un conflitto teologico fra ciò che rappresenta il Tempio e ciò che rappresenta la Tenda. Seguiamo per qualche breve tratto il racconto con qualche osservazione. Inizialmente, il profeta Natan approva l’intenzione di Davide di costruire una sontuosa dimora per il Signore, affermando: «Va’, fa’ quanto hai in cuor tuo, perché il Signore è con te» (v. 3). Ma in quella stessa notte, subito, Natan e Davide vengono clamorosamente smentiti da Dio: «Forse tu mi costruirai una casa perché io vi abiti? Io infatti non ho abitato in una casa da quando ho fatto salire Israele dall’Egitto fino ad oggi; sono andato vagando sotto una tenda» (vv. 5b-6). Ma Dio non si accontenta di affermare solo questo, egli nega di aver mai chiesto una casa, un palazzo, anche dopo che Israele si era stabilito nella terra promessa; egli ha continuato ad abitare in una tenda, senza chiedere niente di più (v. 7).

 Visioni contrapposte

Noi ci dobbiamo fermare qui, ma il racconto prosegue e Dio per mezzo di Natan alla fine farà a Davide quella che viene definita la grande promessa messianica. Tuttavia c’è ancora un dettaglio per nulla insignificante da osservare. Successivamente Dio promette a Davide che renderà grande il suo nome, che costruirà lui una casa a Davide, gli darà una discendenza e «fisserò un luogo per Israele mio popolo, e ve lo pianterò perché vi abiti e non tema più e i malfattori non lo opprimano come in passato» (cf. vv. 8-17). Col dire «fisserò un luogo per Israele», l’autore sembra pensare ad un altro luogo che non è la terra dove Israele già risiede. Fin dall’inizio del racconto della discussione fra Dio e il suo profeta Natan e Davide, è chiaro che ci troviamo davanti al tema del dimorare e della casa.
L’autore del libro di Samuele offre una chiave di lettura già nel capitolo precedente, descrivendo il tentativo fallito di Davide di trasportare l’Arca nella sua città, presso di sé, nella città di Davide. Tentativo che tragicamente fallisce, perché Uzzà, nel tentativo di impedire al carro di rovesciarsi stende una mano, lo tocca e così muore fulminato dall’ira di Dio! Davide si adira e si spaventa e fa dirottare l’arca in casa di Obed Edom di Gat, probabilmente un non-israelita (il suo nome significa: servo di Edom); ma dopo essersi accorto che Dio aveva benedetto la casa di Obed Edom, Davide decide di trasportare l’arca presso di sé (cf. 2 Sam 6,1-12). I commentatori a questo punto si dividono: come giudica l’autore il comportamento di Davide? Per alcuni commentatori, l’autore suggerisce la volontà di Davide di esercitare un controllo politico e teologico sul Signore stesso. La costruzione del Tempio, infatti, avrebbe fornito una legittimazione alla monarchia, rendendola stabile e centralizzando il culto a Gerusalemme.
La storia della monarchia, raccontata nei libri storici, non può essere semplicemente vista come un’epopea celebrativa, ma è anche una narrazione che riflette una profonda critica all’istituto monarchico. Coesistono nella Bibbia diverse visioni e tensioni che non possono essere soppresse, ma presentate nel loro conflitto. Dobbiamo abituarci a leggere la Bibbia non come un testo dogmatico, ma come un libro che accoglie e rivela prospettive a volte opposte. Questo vale anche per le considerazioni contrastanti riguardanti il Tempio. E per esprimere questo contrasto si utilizzano due figure, il tempio, appunto, simbolo della stabilità, della fissazione di un luogo perenne, collegato ad una autorità, ad un potere politico, e la tenda, simbolo della provvisorietà, non legato all’autorità, al potere; infatti l’autore presenta il trasporto dell’arca da un luogo lontano dalla reggia a Gerusalemme, come una iniziativa di Davide, non di Dio.

 Un luogo di persone

Successivamente al 587, alla caduta di Gerusalemme e alla distruzione del Tempio, troveremo profeti che sostengono riguardo al Tempio visioni diverse. I libri di Esdra e Neemia (il profeta Aggeo con loro) raccontano il grande sforzo dei due uomini per la ricostruzione del tempio, il tempio diviene il luogo dell’identità di Israele. Più tardi il terzo Isaia, profeta postesilico, arriverà a contestare questa visione: «Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi potreste costruire?» (Is 66,1a). Ma la sua critica va anche oltre e aggiunge «in quale luogo potrei fissare la dimora?»: Isaia sembra dire che nemmeno Gerusalemme può essere il luogo adatto alla sua dimora. Sulla stessa linea di pensiero di Isaia si pone un altro profeta del Nord, Osea.
Probabilmente esistono anche altre posizioni riguardanti la casa di Dio, la sua dimora in mezzo agli uomini. Il salmo 114 sostiene che in realtà il tempio del Signore non è un luogo, ma un “luogo” costituito da persone: «Quando Israele uscì dall’Egitto, la casa di Giacobbe da un popolo barbaro, Giuda divenne il suo santuario, Israele il suo dominio». Giuda può indicare un luogo, ma può indicare anche il popolo, la comunità del Signore. Ezechiele terminerà il suo libro con il progetto del nuovo tempio (Ez 40-48), ma un tempio che non sarà sul modello del precedente, sembra piuttosto essere un modello simbolo del tempo futuro, e in ogni caso, in questo progetto, il principe avrà un ruolo e una posizione più marginali. Ricordiamo che nel progetto di Davide il tempio era accanto alla reggia.
Questa rassegna, troppo rapida e incompleta, ci permette tuttavia di osservare che dopo la caduta di Gerusalemme, e la distruzione del Tempio, nascono idee molto diverse e addirittura contrastanti che riguardano il Tempio, in risposta appunto agli eventi del 587. Qui ne abbiamo ricordate alcune. L’ultima osservazione riguarda l’idea di una dimora errante. Dopo la catastrofe del 587 a.C., la critica al Tempio non sembra rifarsi mai esplicitamente all’idea della Tenda del Convegno, che in un certo senso potrebbe prestarsi ad essere l’archetipo di una presenza divina che accompagna il popolo nella sua diaspora, nel suo esilio, per certi versi esiliato perfino nella propria terra. E nemmeno la letteratura apocalittica coeva, del periodo del Secondo Tempio, sembra rifarsi alla figura della Tenda. Rimane questo come un punto di domanda.

 Il Dio della presenza

È nel Nuovo Testamento, in particolare negli ultimi capitoli dell’Apocalisse, che il concetto di tenda riemerge in modo potente. Il veggente di Patmos, nella sua visione della Nuova Gerusalemme, afferma di non vedere alcun tempio, poiché «il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (Ap 21,22). Dicendo questo intende dire che nel tempo futuro, escatologico, non ci sarà più bisogno di un luogo come mediazione per mettersi in contatto con Dio. Eppure, soltanto qualche versetto prima, aveva descritto Gerusalemme come un luogo, come una tenda: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli, ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio» (Ap 21,3). Possiamo pensare che l’autore recuperi qui la figura della tenda per un motivo profondo: essa rappresenta l’idea di un luogo fuori dall’accampamento, accessibile a tutti, senza la mediazione dei sacerdoti. È il simbolo di una comunione diretta e universale, una presenza divina che accompagna l’umanità senza bisogno di mura o confini. Possiamo dire che il dibattito tra Tempio e Tenda si risolve qui in una sintesi che supera ogni logica di luogo, per abbracciare quella di presenza?