Fioretto cappuccino 

Come frate Apollinare non pregò prima di mangiare

Frate Apollinare Sassi da Santa Sofia, un frate in cui l’origine dal fango primordiale era ancora palpabile: non corpulento o quasi, ma dai passi pesanti, inconfondibili, tanto da sembrare fatto ancora di creta. Quando pronunciava il suo cognome seguito dal paese di nascita, l’aria usciva dalla sua bocca sibilando tra gli spazi dei denti, tra tante esse strascicate.

Quando sorrideva, divaricava e tirava le labbra, senza mai lasciare la chiusura dei denti, come se, più che un sorriso, fosse un ghigno beffardo. Ma non era così. Frate Apollinare era un filosofo immerso sempre nei suoi pensieri, impegnato a spaccare in quattro un capello, mai certo di riuscirci. Anche di notte rimuginava le idee, mulinando le braccia o accompagnandole con il movimento macinante della mandibola.
Proprio perché così indaffarato a segare l’erba nei prati della filosofia, ben difficilmente era disponibile a concedersi un momento di riposo intellettuale, lasciando che i problemi si accavallassero in ordine sparso nelle sabbie mobili della sua mente. Si possono contare sulle dita di una mano le volte in cui si è recato al suo paese per rivedere i suoi congiunti, o si è concesso una gita di piacere o di approfondimento artistico. Se qualche volta, dietro l’insistenza di amici o di confratelli, si era concesso di unirsi a loro per raggiungere una località marina o di montagna, o per visitare un museo, le sue esclamazioni non conoscevano declinazioni diverse da «Porco boia, quant’acqua!», «Porco boia, che montagne alte!» o «Porco boia, bel quadro!».  “Porco boia” era il suo intercalare abituale, appreso chissà quando, ma probabilmente a lui familiare fin da ragazzo, quando nel suo paese dell’alta Romagna sentiva ripeterlo o così o in una delle sue varianti non qui riferibili. Non per nulla i frati lo avevano soprannominato «porco boia», senza che lui mai lo sapesse. Era nato a Santa Sofia, un paese immerso tra le verdi colline dell’Appennino tosco-romagnolo, lungo la Valle del fiume Bidente, nel parco delle foreste Casentinesi. Un paese del buon vivere non diversamente da altri paesi romagnoli, nella ricerca di un armonico stile di vita, lontano da complicati problemi esistenziali. Frate Apollinare mai aveva dimenticato il respiro della sua terra, e ricordava sempre i nomi delle località a lui familiari fin da dal latte materno: Campigna, Passo del Muraglione, Monte Fumaiolo.

Un giorno frate Apollinare, cappellano nell’Ospedale Bellaria di Bologna, fu assalito dal desiderio di rivedere il suo paese. Come arrivarci? I cappellani possedevano un’automobile da quando frate Apollinare, non si sa come, aveva ottenuto la patente di guida. Ma chi si fidava di lui? Forse neppure lui stesso. La soluzione era di ricorrere al frate cappellano più giovane, frate Paolo, certamente più affidabile di uno che guidava l’automobile solo per i viali dell’Ospedale. La sera, dopo cena, gli fece la proposta: «Di’… Sai cosa ti dico? Domani andiamo a Santa Sofia. È un pezzo che non ci vado, e ho voglia di rivedere il mio paese, porco boia!». Il frate giovane, a cui non dispiaceva girare per il mondo, fu subito d’accordo: «Certo, certo. Domattina partiamo».  Per tutta la durata della notte frate Apollinare fu invaso dai pensieri più disparati. Rivedeva le case lungo le rive del fiume Bitonto che tagliava Santa Sofia in due, i lontani monti della Carpegna, i volti dei vecchi che aveva lasciato da bambino. Poi, improvvisamente, era tentato di rinunciare al viaggio. Ma ormai aveva deciso. Sicché il mattino dopo i due frati salirono sulla vecchia automobile, lasciando al terzo frate cappellano ogni incombenza dell’ospedale. Frate Paolo, dopo essersi assicurato che nel serbatoio dell’automobile ci fosse sufficiente benzina, si rivolse all’altro passeggero: «Partiamo?». Frate Apollinare, che era a volte assalito da scrupoli, volle giustificare a se stesso quella scappata. Batté un pugno sul cruscotto, divaricò le labbra facendo vedere i denti ben serrati, e disse, come per convincersi ancora una volta: «Porco boia, anch’io ho diritto di prendermi un giorno di vacanza! Partiamo!». 
Durante il viaggio, frate Apollinare intercalava lunghi silenzi a improvvise esclamazioni su quello che vedeva lungo la strada. Il frate autista procedeva senza mai eccedere nella velocità, perché sapeva che frate Apollinare pesava più di un grosso sacco di patate sulle ruote di destra, e occorreva prudenza per non finire fuori strada. Si avvicinava ormai mezzogiorno, ma Santa Sofia era ancora lontana, mentre frate Apollinare avvertiva già i morsi della fame. Senza tergiversare, lanciò una proposta: «Di’, che ne dici se ci fermiamo in una trattoria per mangiare?». «Padre Apollinare, se a lei va bene, a me ancor di più», rispose frate Paolo, pure lui assalito da crampi da fame. Si fermarono al primo ristorante lungo la strada, parcheggiarono il veicolo, ed entrarono nella sala. Vi erano diversi tavoli già occupati, proprio quelli più riservati, tanto che i due frati dovettero accomodarsi proprio nel mezzo, davanti agli occhi di tutti. Frate Apollinare si sentiva a disagio, ma cercava di dissimularlo, dicendosi: «Porco boia, ho il diritto di mangiare come tutti o no?». Una cameriera bionda di mezza età si avvicinò e chiese che cosa volessero. Frate Apollinare si rivolse a frate Paolo: «Di’ su, a me va bene qualsiasi cosa. Tu prendi quello che vuoi». «Anche a me va bene tutto». «Bella signora, faccia lei».
La cameriera, visibilmente gratificata dal complimento di un frate, ritornò con due abbondanti piatti di tagliatelle fumanti e li depose sul tavolo. Benché i due frati sentissero i succhi gastrici spingere sullo stomaco, tuttavia nessuno prendeva l’iniziativa di incominciare. Frate Paolo non ne poteva più di aspettare: «Su, Apollinare, dica la preghiera». Frate Apollinare sembrava non aver sentito. Rimase in silenzio, macinando lentamente la mandibola. Gravi pensieri si affollavano nella sua mente, sentendo gli occhi di tutti gli avventori su di lui. Finalmente, tirando un grosso sospiro, dimostrò di aver preso decisione: «Porco boia, sai cosa ti dico? Io non dico un bel niente!», e subito afferrò la forchetta come un forcale per affondarla nel “pagliaio” di tagliatelle che troneggiava sul piatto, e, subito dopo, in una braciola e in un’insalata, innaffiate con un bicchiere di Sangiovese. Finito tutto, al momento di saldare il conto frate Apollinare estrasse il portafoglio e lo diede al compagno: «Va’ tu a pagare. Io non ci so fare». L’uscita dal ristorante fu per frate Apollinare una liberazione: non ne poteva più di rimanere sotto gli occhi curiosi della gente, come se dovesse sentirsi in colpa per aver mangiato.
Nell’avvicinarsi all’automobile, frate Apollinare, che macinava sempre i pensieri più impensati, aveva deciso: «Paolo, sai cosa ti dico? Torniamo a Bologna! Abbiamo fatto un bel giro, abbiamo mangiato bene, cosa vado a fare a Santa Sofia? I miei parenti li vedrò un’altra volta. Mica moriranno stasera, porco boia!». Così i due risalirono in auto e ripresero la via del ritorno. E che? Avevano fatto un bel giro, avevano mangiato bene, e tornare a casa per frate Apollinare era sempre la cosa più gradita, porco boia!