Lettere in Redazione

Tu domani qui

 È domenica 31 luglio, sono a Foggia con il mio ragazzo, salgo sull’autobus 24, destinazione Borgo Mezzanone, un piccolo paese nell’entroterra pugliese a dieci chilometri da Foggia. Sono circondata da africani, il viaggio dura venti minuti. L’autobus si ferma e scendo. A Borgo Mezzanone è presente un CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo), meta di speranze per chi fugge dal proprio paese d’origine per fame, guerra, dittatura. Qui sono presenti i missionari scalabriniani, che operano quotidianamente per sostenere i migranti: organizzano campi di formazione e servizio per i ragazzi durante i mesi estivi.
Quest’ anno ho avuto la fortuna di poter partecipare ad una settimana di campo organizzato da loro chiamato “Io ci sto” per poter vedere con i miei occhi altri occhi, poter ascoltare con le mie orecchie lingue sconosciute, sentire con il mio naso odori che non conoscevo, conoscere storie e studiare schiavitù che ignoravo. Sono occhi, voci e odori che parlano di un’Italia dimenticata, nascosta dall’indifferenza di chi pensa di aver già fatto tutto il possibile. È difficile trovare il proprio posto in una realtà come questa e per farlo bisogna innanzitutto conoscerla, togliendo filtri e pregiudizi che la società in cui viviamo tende ad innescare.
Ben presto abbiamo scoperto che, a poco meno di mezz’ora di macchina da Borgo Mezzanone, sorge il “ghetto” di Rignano, che ospita circa ottocento migranti, braccianti sottomessi al fenomeno schiavista del caporalato. Il caporale si interpone tra il lavoratore e l’azienda agricola e organizza, gestisce e controlla il lavoro percependo parte della quota che spetterebbe al bracciante. Il lavoro che il migrante si trova a svolgere è a cottimo e vincolato da un contratto praticamente fasullo. Oggi in Italia ci sono migliaia di migranti che lavorano dieci, dodici ore al giorno per tre euro a cassone di pomodoro (un cassone pesa tre quintali). Oggi. In Italia.
Sempre vicino a Borgo Mezzanone sorge un altro ghetto, ancor più dimenticato da Dio e dagli uomini, è un ghetto di famiglie bulgare che si spostano dal loro paese d’origine per lavorare in Puglia la stagione del pomodoro, l’oro rosso, allo stesso prezzo, alle stesse condizioni. Zingari, come li chiamiamo noi. A me e ad altri ragazzi del campo è stato proposto di fare animazione ai bambini di questo ghetto. Il pomeriggio del primo giorno il pulmino che ci accompagnava ci ha lasciato alle porte di questa bidonville. Attorno a noi l’assoluto silenzio. I primi passi dentro questo campo rom sono incerti e pieni di paura, ogni movimento solleva polvere, ogni folata di vento agita la spazzatura che circonda completamente quell’ammasso di vita in mezzo ad un campo. Cani randagi scorrazzano da una baracca all’altra. Nonostante i nostri sguardi tradiscano disorientamento, cerchiamo di mantenere il sorriso e di salutare cortesemente gli abitanti che pian piano fanno capolino dalle lamiere e i primi bambini che spuntano fuori come topolini… Mille occhi pieni di vita ci assalgono e nel giro di pochi secondi ci ritroviamo tra le braccia bambini chi dalla carnagione olivastra e capelli neri, chi dalla pelle chiara con capelli ricci e biondi.
«Kak se kazvash?», queste sono tra le pochissime parole che abbiamo avuto il tempo di imparare, come ti chiami? «Ivan!», risponde un tipetto di neanche dieci anni dall’aria furba che inizia a tirarci la maglietta. Un bimbo di qualche anno ci viene incontro barcollando con un sorriso ancora un po’ sdentato e senza pantaloni, è sporco di fango e pieno di cicatrici. Improvvisiamo qualche canzoncina che invitiamo a ripetere; altri tirano fuori una corda e, sollevando polvere e spazzatura, provano a far saltare qualche bambina con vestiti stracciati e sporchi di fango. È buffo guardarci mentre cerchiamo di farci capire, chi con un bimbo in spalla, chi in braccio, cercando di separarne altri che si graffiano o si tirano sassi. Poi abbiamo trovato Alì, un bimbo di dieci anni circa con due occhi grandi e profondi come la notte e un sorriso contagioso. Passa la sua giornata sotto il sole, seduto su un sedile di auto trovato tra la spazzatura che lo circonda. Non può alzarsi, giocare a pallone o saltare la corda come gli altri bambini a causa di problemi di deambulazione che non gli consentono di muoversi. Ama disegnare e ride quando può scarabocchiarti un braccio con il pennarello, ma ho capito che la cosa che gli piace di più è poter giocare a calcio sulle spalle di Tommaso: da lassù il mondo sembra più grande, ci si sente giganti come montagne e veloci come saette. È difficile vedere tutto questo. È difficile anche salutarli al momento di lasciarli, quando ti urlano: «Tu domani qui!». Volevo raccontarvelo.

Chiara Merli - Imola