La ricerca della perla della pace

La sobrietà accade, superando il bisogno insaziabile, genera desiderio di pienezza 

di Giovanni Salonia
frate cappuccino, psicoterapeuta 

Abitare l‘incompletezza

La sobrietà è una virtù… sobria. In effetti, non è molto visibile. Sembra interessare e appartenere a un gruppo ristretto di persone particolarmente sensibili e attente all’uso delle cose. Sì, perché sobrietà richiama al rapporto con le cose e, in particolare, con il cibo e le bevande.

Anche nella sua radice etimologica - sine ebrius - è chiaro il riferimento al non essere ubriaco. Intrigante un’altra possibile radice etimologica - sòphron - che fa riferimento all’essere sani di mente. Dall’intreccio delle tue etimologie, sorgono due domande: chi è sobrio rimane sano di mente o chi è sano di mente si mantiene sobrio? Forse ha più senso pensare che chi è sòphron si mantiene sobrio. Anche perché sòphron rimanda a sofia e a fronesis, che parlano di sapienza e di saggezza nelle decisioni pratiche. È vero: l’essere sobrio non è il risultato di uno sforzo volontaristico, ma accade. Accade naturalmente e con grazia se e quando si sono compiuti percorsi ben precisi. Di questi percorsi che sono grembo della sobrietà vogliamo parlare per evitare che la sobrietà venga ridotta ad un discorso moralistico che punti al rinnovo sia di propositi - legittimamente e puntualmente smentiti - di maggiore sobrietà (si sa, non si può fingere di essere sobri, come non lo si può di essere intelligenti) che di valutazioni negative per chi sobrio non è.  Lo dicevamo: l’essere sobri accade. Descriviamo, allora, alcuni percorsi che alla sobrietà approdano.
«Nessuna persona può maturare in una felice sobrietà se non è in pace con sé stessa»: con questa folgorante affermazione dell’enciclica Laudato si’ (225) sono evidenziati due punti fondanti ogni discorso sulla sobrietà. Deve essere una sobrietà felice (non rassegnata, non imposta, non esibita) e deve sgorgare da un cuore riconciliato. Un cuore è in pace con sé stesso quando ha compiuto quel percorso indispensabile di riconciliazione con i propri limiti: ha scoperto che nel qui-e-adesso di quello che si è e di quello che si ha è nascosta la perla della pace. L’illusione che “manchi qualcosa” alla nostra integrità e alla nostra pienezza è la causa prima di ogni frammentazione, di ogni insaziabilità, di ogni eccesso non amoroso. Detto in altre parole, l’uomo sarà sempre incompleto («un quadrato - diceva Betti - a cui mancherà sempre un lato»): l’unica strada per sentirsi completo è - paradossalmente e inevitabilmente - abitare l’incompletezza che lo definisce. È questa la regola d’oro della vita. Chi ha un talento e se lo assume come proprio, e lo traffica, vivrà un’esperienza di pienezza maggiore rispetto a chi possiede nove talenti e spasima per avere il decimo. 

I confini tra bisogno e desiderio

È necessario a questo punto segnare i confini tra bisogno, desiderio e desiderare. Chi vive la mancanza come bisogno instaura la dipendenza: non posso sentirmi integro, non me stesso, se non ho quel quid che mi rende completo. Ma niente può riempire i vuoti del corpo che sono vuoti dell’anima. Chi ha bisogno non mangia ma ingurgita, non beve ma tracanna, non conosce pausa, non gusta ciò di cui ha bisogno quando lo raggiunge perché con la mente (che sempre mente!) lo giudica comunque poco e precario. Dopo «ha più fame che pria». Si rimane nel bisogno quando non sono stati accolti, contenuti e soddisfatti i bisogni primari. L’iperfagico dopo aver svuotato il frigorifero si sentirà pieno ma non sazio, perché non è (stato) consapevole che cercava una carezza e non un boccone di cibo. Non potrà sperimentare la felice sobrietà chi ha ricevuto un pane, quando in realtà chiedeva e aveva bisogno di una carezza.
Quando è mancata la reciprocità genitoriale, i bisogni rimangono bloccati nella loro unilateralità e non si trasformano in desiderio. Il desiderio, in effetti, è invece reciproco: parte dalla propria integrità (essere in pace con sé stessi) e si accosta a ciò che non ha come ad una delle possibilità di pienezza (non l’unica né l’assoluta). Chi desidera, anche se non dovesse ricevere ciò che desidera, riesce a trasformare la sofferenza in esperienza di crescita, per cui si sentirà, al limite, «più saggio e più triste» (Coleridge). Ancora diversa è la situazione del desiderare. Il desiderare non può avere fine perché è costitutivo dell’esistenza umana nel suo essere limitata e programmata per la pienezza. Ogni desiderio che si realizza ne apre uno nuovo, ma non come “coazione inevitabile”: come un andare avanti verso la pienezza. È importante non confondere l’inesauribilità del desiderare, che è frutto della integrità e va verso la pienezza, dal bisogno che è anche esso inesauribile e, si potrebbe anche dire, insaziabile ma perché esprime intima incompletezza e mancanza di pace con sé stessi. Chi si è riconciliato con il limite è capace - come dice il Manzoni dei cappuccini - di «entrare nei tuguri e nei palazzi con lo stesso contegno di umiltà e di sicurezza».

 Il canto di chi è libero

Citando ancora Laudato si’, chi è in pace con se stesso ha un «ritorno alla semplicità che… permette di fermarci a gustare le piccole cose, di ringraziare delle possibilità che offre la vita senza attaccarci a ciò che abbiamo né rattristarci per ciò che non possediamo» (LS, 222). La sobrietà non impedisce l’impegno per migliorare sé stessi a tutti i livelli - esteriori o interiori - ma colloca tale impegno nella logica della gratuità, della reciprocità, della pienezza. Allora si scopre che non sono solo i risultati che contano, che non è l’approvazione esterna che riempie il cuore, che la visibilità non può dare l’invisibile, che la gioia di suonare è la ricompensa del suonare più che gli applausi, che a volte rallentare assieme è più bello che arrivare da solo al traguardo. 
Nei santi - ci ricorda il Pozzi - le traiettorie sono ben precise: «La via dal superfluo all’indispensabile conduce dal contingente all’assoluto, dal molteplice all’uno, dall’identico all’altro. Allora la sopravvivenza, tolta dalle mani dell’uomo, non può che apparire dono di Dio». Dalla “logica del cowboy” ci si converte alla logica dell’astronauta, che per vivere può consumare solo quello che ha (A. Nanni).
«La sobrietà, vissuta con libertà e consapevolezza, è liberante. Non è meno vita, non è bassa intensità, ma tutto il contrario. Infatti quelli che gustano di più e vivono meglio ogni momento sono coloro che smettono di beccare qua e là, cercando sempre quello che non hanno, e sperimentano ciò che significa apprezzare ogni persona e ogni cosa» (LS, 200).
La sobrietà, in ultima analisi, accade come il canto di chi è riconciliato con la propria felicità terrena e vive con pace il sentirsi custode dei frutti che dona a tutti la Madre Terra, perché con ogni vivente siano condivisi. Sobrio, quindi, quando e perché il mio corpo sa che il “di più” non aggiunge niente alla mia felicità, ma crea le condizioni perché il bisogno del fratello divenga desiderio e insieme si continui a desiderare “il pane quotidiano” della fraternità.