Dentro i limiti della creatura
Ribellione o asservimento al Creatore sono le reazioni della nostra deificazione
di Fabrizio Zaccarini
vicemaestro dei postulanti cappuccini a Lendinara
Mancata figliolanza
«Adamo poteva dunque mangiare i frutti di qualunque albero del Paradiso; egli, finché non contravvenne all’obbedienza, non peccò» (FF 147). Così Francesco nella seconda Ammonizione commenta Gen 3.
Mangiando, e cioè appropriandosi e assimilando a sé il frutto che Dio aveva vietato all’uomo, ponendolo di fronte a lui come limite alla sua libertà e perciò come vocazione a riconoscersi creatura dipendente dal Creatore, l’uomo dà inizio alla propria storia di disperata autodeificazione il cui risultato fallimentare sta tutto nella paura di chi (Dio) sta oltre sé, nell’insostenibilità della propria fatica, nell’angoscia della morte, diventata abbandono amaro e nientificante da luogo fiducioso di un dolcissimo abbraccio. Il vuoto in cui precipita la creatura che cerca vita e libertà prescindendo dal Creatore, noi tentiamo di riempirlo in due modi: ribellione contro Dio o asservimento a lui.
La prima è la strada del figlio minore del Padre misericordioso di Lc 15: divoro il mondo secondo il mio gusto e il mio infinito desiderio. La seconda strada è quella del figlio maggiore: senza far veramente mio il lavoro che il Padre mi affida, vivo il suo insegnamento come un laccio obbligante, una regola estranea a me, che mi rende schiavo invece di condurmi a libertà.
Ovviamente entrambi i figli ci abitano, perché ciò che a tutti manca, in qualche misura, è la fiducia di essere già totalmente amati così come siamo. La condizione della figliolanza non è infatti un bene disponibile alle nostre forze d’acquisto, rimane saldissima invece nell’ordine del dono gratuitamente dato, gratuitamente ricevuto. Dunque non c’è motivo di cercare libertà lontano dalla casa del Padre, né di restare perennemente tesi nello sforzo di meritare il suo amore accumulando atti servili. L’uno e l’altro figlio ci sono raccontati come paradigmi di mancata figliolanza che, comunque, conducono all’impossibilità di mangiare e godere delle cose del mondo. Il primo non mangia perché ha sperperato l’eredità che ha ricevuto senza averne diritto, il secondo perché, preso dal rancore, si rifiuta di partecipare alla festa per il fratello ritrovato; il primo vestito a festa con l’anello al dito banchetta con le carni del vitello grasso, l’altro è invitato a condividere lo stesso banchetto. Nel primo come nel secondo caso, mangiare e figliolanza, ma anche figliolanza e fraternità mancate e il non poter mangiare e godere del mondo sono strettamente legati.
Perciò Francesco commenta Gen 3 sottolineando soprattutto che non ci fu peccato fino a quando Adamo esercitò la sua libertà entro il limite assegnatogli dal Creatore, il limite strutturale, cioè, della sua condizione di creatura; perciò conclude il capitolo che nella Regola bollata dedica alla preghiera e al digiuno (FF 82-86) con queste parole: «E secondo il vangelo, sia loro lecito mangiare di tutti i cibi che vengono loro presentati». Ora la Regola bollata rivolge esplicitamente questo invito a libertà ai frati in condizione di itineranza. Per i frati minori stare in strada in compagnia dei fratelli più piccoli ha, evidentemente, un valore maggiore dell’osservanza scrupolosa delle regole del digiuno conventuale.
Il nostro pane quotidiano
Ma allora a che servono le regole alimentari e il digiuno? Cominciamo da Gesù che ci ha insegnato a pregare il Padre chiedendo il pane, ma allo stesso tempo a questa richiesta ha affiancato un doppio limite dato che il pane da chiedere è, come il Padre, nostro e non mio, ed è quotidiano, cioè quello che mi serve per oggi e non di più e non di meno.
Abolire le regole non ha liberato e non libererà il mondo. Ed è così che schiavi di noi stessi, delle nostre gole e bramosie varie, ci troviamo prigionieri di un mondo in cui, dati Unric (Centro Informazioni Regionali delle Nazioni Unite), la produzione alimentare cresce più di quanto cresca la popolazione mondiale, ma 925 milioni di persone soffrono la fame; 1,3 miliardi di tonnellate di cibo ogni anno (pari a un terzo della produzione mondiale) va sprecato. Segni di speranza ce ne sono - Banco alimentare, Supermarket Last minute e così via -, ma il problema è lontano da una soluzione perché, dicevano i nostri saggi padri cappuccini della prima ora: «Poco basta alla necessità, niente alla cupidigia».
C’è, paradossalmente, abbondanza per la vita di tutti, ma non ce n’è a sufficienza per la gola di un solo uomo. Aperta la porta all’arbitraria insaziabilità dei pochi, oltre quella soglia troviamo il deserto umano in cui siamo, dove si muore non avendo nemmeno una briciola di pane lasciata cadere dalla tavola del padrone, ma anche avendone troppo e ammalandosi di vari e contradditori eccessi.
Il digiuno allora è utile per sperimentare la forza di quel bisogno che chiamiamo fame, e ritrovare, con essa, la misura della giustizia solidale, per la quale non conta solo ciò che sta nel mio piatto, ma anche ciò che manca al piatto del fratello. Digiuno che non è fratello del lamento o della tristezza, ma della gioia di essere figli del Padre, fratelli gli uni degli altri e sposi di Colui che ha dato la vita per noi. Per questo nella Regola non bollata Francesco ammonisce così i frati: «Quando digiunate non prendete un’aria melanconica come gli pocriti» (FF 9). D’altra parte la vocazione di figlio e fratello, finché lo Sposo non sarà con noi, ci dona frutti di dolcezza, sì, ma come goderne compiutamente? Il compimento noi, Chiesa sposa, lo attendiamo ancora e ancora, fino all’ultimo giorno.
In memoria di me
Egli, volendo lasciare perpetuo ricordo di sé prima di dare la vita, ha anticipato il dono di sé, spezzando il pane, versando il vino e dicendo: «Fate questo in memoria di me». Intorno al nostro palato ha fecondamente intrecciato memoria, necessità (pane) e festa (vino) che ci chiama a vivere la povera e straordinaria avventura della nostra umanità alla luce del mistero pasquale. In realtà ogni volta che mangio, accetto, implicitamente, che qualcosa, che aveva vita, l’abbia perduta perché io, nutrendomene, possa restare in vita. Così l’eucaristia è la chiave di comprensione della nostra vocazione filiale e, perciò, anche del nostro bisogno di mangiare che ha il suo sapore autentico solo finché non è separato dalla gioia di mettersi a servizio. Non a caso l’ammonizione precedente a quella citata in apertura, si occupa proprio del pane eucaristico come segno reale dell’amore di Gesù per noi.
L’invito a mangiare liberamente ciò che mi vien dato appare dunque un chiaro invito a lasciarsi condurre alla piena assunzione di una logica eucaristica, che chiede di dare/ricevere il pane/corpo per saper poi dare sé stessi in quel culto spirituale che è la nostra vita di fede amorevolmente operosa. Così Francesco, dopo aver fatto misericordia ai lebbrosi tra i quali il Signore l’aveva condotto, allontanandosi da essi, gioì con tutto sé stesso perché «ciò che gli sembrava amaro gli fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo» (cfr. FF 110).