Riconoscere Dio e servire gli altri

Il criterio della misura nelle cose ci viene donato dalla sobrietà 

di Valentino Romagnoli
frate cappuccino, biblista, incaricato per la pastorale giovanile 

«Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1Pt 5,8). Nella prima lettera di Pietro il richiamo alla sobrietà ritorna tre volte e sia l’inizio della lettera (1,13) sia la sua conclusione contengono l’invito a restare sobri. Come si spiega questa premura? Cosa intende l’autore di 1Pt per sobrietà? E, più in generale, come la Sacra Scrittura regola il rapporto con le bevande alcoliche?

 

 Il bicchiere del disonore

Nella Bibbia l’unica bevanda inebriante che riveste un ruolo importante è il vino, il vino rosso in particolare, spesso chiamato “sangue dell’uva”, e contrariamente a quanto pensa chi si ostina a dipingere il mondo biblico come soffocante e privo di salutare passione, la Scrittura riserva al frutto dell’uva una grande importanza positiva.
Certo, ci sono intere pagine in cui a più riprese si raccomanda prudenza, ben consci degli effetti nefasti che derivano dall’uso eccessivo di vino. Così i Proverbi ricordano che «non conviene ai re bere il vino, né ai prìncipi desiderare bevande inebrianti, per paura che, bevendo, dimentichino ciò che hanno decretato e tradiscano il diritto di tutti gli infelici» (Pr 31,4-5). Il vino può intorpidire la mente (Os 4,11), rendere l’uomo irresponsabile e imprudente di fronte ai pericoli (2Sam 13,28). A tutti è nota la storia di come il grande Noè, che riuscì a salvare la creazione dall’oceano della collera di Dio, non riuscì a salvare il suo onore da un bicchiere di troppo (Gen 9,20-27). Per lo stesso motivo nel NT la prima lettera a Timoteo raccomanda che il vescovo «non sia dedito al vino» mentre per i diaconi, più indulgentemente, è sufficiente che «siano moderati nell’uso del vino» (1Tm 3,3.8).
 Il calice della salvezza

Ciò nonostante, al di là di queste lecite e necessarie raccomandazioni, nella Scrittura il vino ha un valore talmente positivo da essere annoverato a tutti gli effetti tra le «cose di prima necessità per la vita dell’uomo: acqua, fuoco, ferro, sale, farina di frumento, latte, miele, succo di uva, olio e vestito. Tutte queste cose sono un bene per i buoni» (Sir 39,26-27). Nell’AT il vino era considerato una benedizione perché aveva la funzione di alleviare agli oppressi le loro tristezze e gli affanni: «date bevande inebrianti a chi si sente venir meno e il vino a chi ha l’amarezza nel cuore» (Pr 31,6). Non poteva mancare nel bagaglio dei viandanti, nel vettovagliamento per le guarnigioni, nei banchetti e nelle feste (Dt 7,13).
Esso è un dono che proviene direttamente da Dio, il quale ha attribuito a ognuno degli elementi base della tavola mediterranea una funzione che oltrepassa il semplice uso alimentare: «vino che allieta il cuore dell’uomo, olio che fa brillare il suo volto, e pane che sostiene il suo cuore» (Sal 104,15).
Il NT si spingerà, se possibile, ancora oltre: nel vangelo di Giovanni, il primo dei sette segni che Gesù compie è di cambiare l’acqua in vino (Gv 2,1-11); il regno di Dio viene presentato a più riprese come un largo banchetto (Mt 22,1-14; Lc 14,16-24). Ma è nell’ultima cena, anticipazione della passione di Cristo, che il vino assume la massima funzione cui è mai stato destinato da un uomo: quello di diventare la “specie” sotto cui si presenta il sangue del Redentore del mondo.

 Sobri per servire

Stante il valore positivo del vino, come dobbiamo interpretare l’invito alla sobrietà che troviamo in 1Pt? È solo un invito alla moderazione o c’è qualcos’altro? Per comprendere il valore della prescrizione vediamo cosa indica il verbo greco utilizzato in 1Pt 5,8: nēfō. Formalmente il verbo nēfō è un verbo “negativo” che indica l’opposto dello stato di ebbrezza intesa in un duplice senso: in senso proprio come ubriacatura da bevande alcoliche, in senso traslato come esaltazione psichica provocata da altri fattori. In tutta la Bibbia esso ricorre solo sei volte, mai nella LXX, versione greca dell’AT, mai nei vangeli, tre volte in 1Pt (1,13; 4,7; 5,8), due in 1Ts (5,6.8) e una in 2Tm (4,5). Non era però un verbo sconosciuto all’antichità classica, dove ha assunto una vasta gamma di sfumature.

Nel mondo ellenico in un primo momento il termine era utilizzato solo nella prima accezione, ma in epoca successiva il suo valore semantico viene allargato e con “essere sobri” si comincia a indicare l’essere vigili, in completo possesso delle proprie facoltà mentali, presenti a sé stessi. Per Platone la sobrietà è una virtù necessaria sia per il bene del singolo, sia per il servizio della comunità; l’amministratore pubblico in particolare deve essere sobrio nei confronti del denaro e del guadagno e vera sobrietà è quella di chi riesce a preporre il possesso moderato a quello abbondante anche quando sia ha possibilità di profitto. Ma questi - lamentava l’Ateniese - sono ahinoi casi rarissimi, allora come oggi (cfr. Leggi 11).

 

Lesti a riconoscere

Se questo termine, con tutte le sue sfumature semantiche è entrato nel NT lo si deve alla mediazione di Filone d’Alessandria, il grande filosofo ebreo coevo di Gesù (circa 20 a.C.- 45 d.C.) che si esprimeva in greco e che ha fatto da ponte tra la cultura ellenistica e quella biblica. Per lui la sobrietà consisteva essenzialmente nell’obbedienza al disegno creatore di Dio non appena questo viene riconosciuto. Infatti, chi sta in rapporto con il Dio vivente non può volere altro, per amore di questo Dio, che imbrigliare le proprie forze con la sobrietà. In fin dei conti, dice l’Alessandrino: «È opera di una ragione sana e sobria riconoscere Dio quale facitore e padre dell’universo» (De posteritate Caini 175). Al contrario l’ebbrezza, l’annebbiamento della mente, è dovuta in ultima analisi al fatto che in qualche modo la creatura, l’io dell’uomo, prende il posto che spetta a Dio soltanto. Chi esce dall’ubriacatura e torna alla lucidità è colui che sa riconoscere il male compiuto in lui durante l’ebbrezza. Diventare sobri significa incamminarsi verso la metánoia, ovverosia il ravvedimento, la lezione appresa dopo l’errore commesso.

È in questo senso che il NT utilizza nēfō: esso indica il riconoscimento della realtà divina da un lato, e la capacità di svolgere il servizio che ne risulta dall’altro, mediante la preghiera, la speranza, la lotta, l’amore. Sobrietà in fin dei conti, non vuol dire altro che essere vigilanti, temperanti per riconoscere Dio che agisce nella sua bontà, e per individuare il diavolo che come leone ruggente è, lui sì, insaziabile e non conosce limiti alla propria ingordigia.