Fioretto cappuccino

Come frate Biagio si risvegliò dal sogno dopo un giorno di libagioni con un amico pastore

 Frate Biagio era un uomo tranquillo, di piacevole conversazione e amante della libertà, senza i tanti superflui legami e legaccioli che appesantivano la vita conventuale.

Non solo la libertà di manifestare le sue convinzioni mentre si intratteneva con una persona, ma soprattutto quella di potersi muovere autonomamente per decidere lui stesso i ritmi della sua giornata. Anche la libertà di poter scegliere l’ora della sveglia al mattino, tutt’altra cosa che al canto del gallo, e l’ora in cui spegnere la luce la sera per addormentarsi, ben più in là del tramontare del sole. Si accontentava di mangiare quello che trovava, ma quanto al bere era un po’ più esigente: all’acqua preferiva il vino, bianco o nero non importava, purché fosse genuino, di quello che veniva spillato dalle botti dei contadini.
Piccolo di statura, con una folta capigliatura puntualmente scarmigliata al pari di un cespuglio di rovo, e con una barba che gli nascondeva alquanto il volto, ogni sabato mattina lasciava il suo convento di Bologna per introdursi dentro l sua minicar Sulky, un autoveicolo a un unico posto un po’ auto e un po’ motoveicolo, con una ruota davanti e due dietro, di quelli che tempo fa necessitavano solo di un patentino per la guida, facilmente ottenibile. Con quel piccolo mezzo a motore, con tanto di volante e quattro marce e retromarcia come un’autentica automobile, raggiungeva per il servizio domenicale una parrocchia di montagna, San Prospero. Lassù si sentiva come un re, non tanto di un piccolo pollaio qual era quel borgo montanaro, dove lasciava altri correre dietro alle galline, ma perché respirava a pieni polmoni la libertà, senza i vincoli degli orari fissi e delle noiose consuetudini di un convento. Tra quelle montagne dove era nato, intesseva rapporti amichevoli con tutti, bianchi, neri e rossi, evitando le discussioni sulla politica, argomento che riscaldava gli animi della gente con effetti di feroci contrapposizioni. Al termine del suo servizio domenicale si rimetteva in strada con il suo triciclo per fare ritorno in convento. E così per tutto l’anno, inverno o estate che fosse. La gente di montagna gli voleva bene, perché vedeva in lui un animo cristallino, anche se per gli orari si regolava con un orologio che spesso dimenticava non si sa dove.
Una domenica d’estate, quando il sole picchia sulla testa come un piccone, dopo aver fatto il consueto sonnellino pomeridiano nella sua canonica, avvertì una grande sete. Di acqua ce n’era in abbondanza in casa, ma con il passare degli anni si era convinto che la domenica dovesse essere santificata a dovere con un buon bicchiere di vino, di quello che rallegra il cuore, come è scritto nei salmi. Così, prima del ritorno in convento, fece un salto nell’osteria del paese. C’erano molti uomini seduti ai tavolini che giocavano a carte, inframmezzando ogni partita con una bevuta di vino schietto. Un uomo di mezza età gli si fece incontro, e frate Biagio, nonostante che quello avesse addosso ancora il vestito di festa messo per andare a messa, dall’odore che emanava lo individuò come il pecoraio che aveva la sua stalla più a valle. «Frate, ha sete? Offro io!».
Frate Biagio non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione, anche per levarsi dal naso l’acre fetore dell’ovile: «Questa sì che è amicizia! In fondo siamo tutti e due pastori!». L’altro ci pensò un po’ su, e poi rispose: «Due pastori sì, ma con una differenza. Quando a me muore una pecora, per me è una perdita. Quando invece muore una sua pecora, lei ci guadagna con un’offerta!». Frate Biagio fece un sorriso e in cuor suo non poté che dargli ragione. Bevvero tutti e due, non badando più di tanto se, pur bevendo, il bicchiere rimaneva sempre pieno, perché impegnati a raccontarsi i tempi della guerra, quando c’era tanta povertà e i pastori dovevano stare sempre sul chi va là per via delle razzie operate dalle truppe tedesche e dai partigiani. Quando frate Biagio si sentì abbondantemente dissetato, fece per estrarre di tasca l’orologio, che immancabilmente non trovò, non ricordando neppure dove lo avesse posato. Guardando la posizione del sole, giudicò che ormai fosse l’ora di rimettersi in strada. Ringraziò il suo compare di bevuta, salutò i presenti, che imperterriti avevano continuato a giocare e a bere, uscì, si infilò nel suo trabiccolo e si avviò.
La strada che da San Prospero raggiungeva la strada principale era sufficientemente ampia da consentire a quel piccolo mezzo di fare lieve sbandata. Nulla di preoccupante. Quando però venne raggiunta la strada principale, frate Biagio si trovò costretto a fare più attenzione e a rallentare l’andatura, perché gli sembrava di non vedere tanto bene i limiti della carreggiata e le curve gli parevano sempre troppo strette. Ma, come Dio volle, riuscì a immettersi sulla strada verso Bologna, dove il traffico era più intenso. Le automobili gli sfrecciavano accanto veloci, tanto paurosamente vicine che frate Biagio, con il suo piccolo automezzo, si sentiva come un pulcino tra tanti galli che cantavano il loro ripetuto chicchirichì. Finalmente svoltò per la strada che portava in convento. Attraversare il primo cancello della mura che immetteva in uno spazio dove giocavano alcuni ragazzi, non fu difficile, perché largo, ma quando si trovò a dover imboccare il cancello, alquanto più stretto, che immetteva nell’orto e negli spazi del parcheggio, invece di uno ne vide due. Incerto su quale attraversare, si decise per quello che gli sembrava più vicino. Accelerò e si trovò a sbattere contro il muro di cinta. Innestò la retromarcia e riprovò. Inutilmente, il cancello che voleva varcare si era rivelato un muro. Guardò l’altro e tentò con quello. Finalmente vi riuscì. Quando scese, cercò di controllare i danni riportati al paraurti anteriore. Osservandolo come gli riusciva gli sembrava che quel mezzo, invece di una ruota anteriore sola, ne avesse due e che il paraurti, anch’esso raddoppiato, avesse riportato alcuni danni. Ma ormai la frittata era fatta e non gli rimase che rimandare al giorno dopo un’analisi più accurata, quando vi sarebbe stata più luce…
Intanto avvertiva le palpebre farsi pesanti, e allora, tralasciando di recarsi a cena con gli altri frati, si gettò sul letto della sua cella e si addormentò come un sasso così come era vestito. Sognò… Sognò che il suo triciclo si era trasformato come per incanto in un’automobile nuova fiammante e il suo patentino di guida per ciclomotori tramutato in una patente per automezzi a quattro ruote. Per tutta la notte guidò da par suo per tutte le autostrade dell’Italia, dove riusciva a sorpassare ogni altro veicolo, automobile o camion che fosse.
Al risveglio… la delusione. Si trovò solo, nel suo letto, e si guardò attorno. Il tracciato di autostrade spaziose era scomparso, e dell’automobile e della patente di guida neppure l’ombra. Era stato solo un sogno, complice una chiacchierata amichevole, innaffiata da qualche bicchiere di vino offerto da un generoso pastore di pecore. Non gli rimase allora che alzarsi per andare a verificare lo stato del suo motoveicolo, che riscoprì avere ancora tre ruote e un paraurti solo, con evidenti ammaccature qua e là. Non se la prese più di tanto, e si ripromise che con quel pastore di pecore avrebbe bevuto solo latte munto di giornata, rallegrandosi con sé stesso perché, sì, il suo Sulky aveva subito qualche danno, ma se al posto del paraurti contro il muro di mattoni avesse picchiato il naso, le conseguenze sarebbero state ben più serie.