«Oggi parleremo di che cosa ha significato nelle nostre vite l’esempio di altre persone. Esempi positivi, naturalmente, ma anche negativi. Ovviamente potremo parlare anche di noi stessi. Ci sarà capitato di essere stati considerati da altri, al di là delle intenzioni e pur senza volerlo, come “buoni“ o “cattivi” esempi a nostra volta…».

a cura della Caritas di Bologna

 Mi fermo e ringrazio

Gli ospiti della Caritas si confrontano sulla necessità della solidarietà per dare buon esempio

 Parole per nuove comprensioni

Mentre scendo di corsa le scale dell’ufficio, mi viene da sorridere. Sono contenta. Ho proprio voglia di vederli ed ascoltarli, i nostri amici del tè.

All’ultimo gradino, mi accorgo di aver sentito la loro mancanza. Improvvisamente metto a fuoco, che una parte di me ha proprio bisogno delle parole sostanziose di queste persone: le attendo. Sono parole potenti, capaci di aprire nuove comprensioni della realtà. Sono parole esplosive, sanno abbattere gli schemi mentali. Sono parole pesanti, possono scendere in profondità, dove abita la coscienza. Sono parole buone, fanno bene. Mi fermo. Respiro. Ringrazio.
Arrivo in sala mentre si sta per iniziare. L’atmosfera è come sempre in principio: leggermente tesa. Ormai ci sono abituata e non mi preoccupo. Scambio velocemente saluti con i presenti mentre appoggio due ciambelle vicino alla brocca del tè. Dai sorrisi che mi vengono incontro, dritti come frecce e carichi di gratitudine, capisco di aver introdotto l’elemento che ancora mancava: la merenda. Le parole sono importanti, certo, ma anche i gesti più piccoli e concreti sanno essere eloquenti. Ora sì, si può cominciare.
Maura lancia il tema, incisiva. Mi stupisce sempre la sua capacità di agganciare l’interesse dei presenti. Come di consuetudine è Carlos a parlare per primo, scaldando per tutti l’atmosfera. «Non ve l’ho mai detto, ma io da ragazzo in Argentina ho fatto il carcere minorile. Fu un’esperienza terribile. In quel posto reggeva solo la legge del più forte e l’unico sentimento era la paura. Voi penserete che io lì dentro abbia avuto solo esempi negativi… e invece dopo aver preso un sacco di botte, proprio in mezzo a tutto quel male, ho ricevuto un gesto di solidarietà che ha cambiato la mia vita. In riformatorio noi soffrivamo fame e sete, ed un giorno un compagno mi regalò un normalissimo arancio, ma fu come se mi avesse regalato il mondo intero. Perché? Non capite? Io avevo sete! In quel luogo dove ognuno pensava solo a sé, quel gesto disinteressato non l’ho più potuto dimenticare. Mi è rimasto dentro e sono cambiato, per quell’esempio. L’esperienza della solidarietà regge davvero, funziona! Nella vita è proprio così: oggi a me, domani a te! Se ho ricevuto ieri, oggi tocca a me offrire un’opportunità a qualcun altro…».

 La memoria dei buoni esempi

I capelli lunghi di Gabriele coprono quasi del tutto il suo volto e si muovono agitati avanti e indietro come un’onda di tempesta. La sua voce è ardente. Tiene lo sguardo nascosto e racconta: «Io vi devo dire che ho incontrato troppi cattivi esempi nella mia vita. Ma i peggiori, li ho visti in ambienti nei quali credevo che certe cose non dovessero neppure succedere. Facevo dei servizi in una parrocchia. Non c’ero solo io a lavorare lì. Sapete che ho scoperto? Più uno era aggressivo e violento, più la gente lo aiutava… Più uno era maleducato e arrogante, più veniva ascoltato e giustificato. Questo è un brutto esempio! Tutti dicevano “poverino, poverino!”. Non è giusto! Il buonismo mi offende! Gente che ruba, che [se] ne approfitta, che alza la voce e aggredisce, continua ad essere aiutata e sostenuta da chi crede di essere buono. Chi invece fa quello che deve in silenzio, come me, non viene considerato e allora si sente calpestato, frantumato, disgregato…».
«Io vivo in un contesto di borsa lavoro. Ci sono molte persone tanto diverse fra loro. Tutte sono fragili. Molto spesso nascono attriti e sorgono contrasti. A volte manderei volentieri tutti al diavolo…»: è Leone ad intervenire, c’è fatica ed esperienza nella voce. «È importante allora il buon esempio del responsabile che con pazienza cerca di ricostruire un ambiente armonico. Per me è importante l’esempio di chi si cura di mantenere la concordia nei rapporti. E poi è importante ricordarsi di aver ricevuto un buon esempio, è fondamentale non dimenticarsi di darlo a nostra volta, anche con gesti piccoli, semplici…».
Maura rilancia: «È interessante questo aspetto. Noi dimentichiamo sempre troppo in fretta il bene ricevuto e certamente lascia maggiormente il segno dentro di noi un’esperienza negativa più di tante positive. Che ne dite?».
«Dalle mie parti si dice: “Non fare il bene se non sai ricevere l’ingratitudine”… ed è proprio così» ribatte istantaneo Vincenzo.
«Io sono rimasta orfana a diciassette anni, trent’anni fa e ho dovuto interrompere gli studi per occuparmi di mia sorella più piccola», racconta Maria Rosaria mentre si aggiusta i radi capelli sottili raccolti in una coda. «Ero giovane e mi piaceva andare a ballare. La gente del paese dove vivevo mi considerava solo per questo una donnaccia. Le loro chiacchiere mi hanno uccisa. Ho sofferto tanto. Tutti mi consideravano una da usare e basta: ero rimasta completamente sola. Per questo esempio negativo che ho ricevuto, mi sono chiusa. Si incontrano persone cattive, a volte. Quando sono arrivata qui a Bologna non avevo più niente, perciò so che significa avere fame e freddo». Qualcosa in ciò che dice mi raggiunge e bussa dolcemente per entrare. La sua voce trasmette una semplicità ed un’innocenza disarmanti. Come si può approfittare di tanta purezza? Dò spazio alle sue parole e mi commuovo. «Oggi ho un figlio di 13 anni, ma …l’ho dovuto lasciare subito in ospedale. Non l’ho mai visto in effetti. Poi mi sono ammalata di schizofrenia. Vivo con la pensione di 400 euro. È dura. Ho sofferto tanto. È vero che gli esempi negativi lasciano il segno più di quelli positivi, come dici tu Maura, ma ti maturano, ti fanno crescere. Più soffri e più cresci. Io sono cresciuta tanto perché ho sofferto tanto…».
«Sono Sibian. Vengo dalla Romania e sono zingaro. Credo sia la prima volta che avete uno zingaro qui, vero?». Sorride fiero, guardandosi intorno e tutti annuiscono, attenti. «Non è facile essere della mia gente: di solito ti guardano male e non si fidano. È difficile trovare un lavoro regolare: nessuno vuole uno zingaro vicino. Tutti sospettano di noi. Io mi son fidato tante volte, ho fatto per gli altri ciò che mi chiedevano, ma poi - quando ero io ad aver bisogno di aiuto - questi mi hanno risposto: “qui posto per te non ce n’è”… Poi ho incontrato un vero esempio positivo. Ho incontrato qualcuno che mi aiutato senza che io facessi assolutamente nulla in cambio. Ora lavoro e suono con il mio gruppo musicale nel tempo libero».

 Cercare alleanze e armonie

«Anche i palestinesi non vivono bene!» interviene Josam e si coglie tutta l’urgenza delle parole: sono state compresse e si impongono alla voce per essere pronunciate: «Io ho visto con i miei occhi un gruppo di soldati israeliani uccidere i tre figli di mio zio… che esempio è questo? Volevano uccidere anche me, ma sono scappato. Ora sono un fuggitivo, un rifugiato come si dice qui… ma che vita è questa? In Italia sono stato accolto, è vero, ma, quando mi hanno riconosciuto il permesso di soggiorno e il diritto di restare, l’accoglienza prevista dalla legge è terminata. Mi hanno buttato fuori e mi son trovato per strada. Adesso mi sono unito ad un gruppo di occupanti, ma anche questa vita è dura, precaria, faticosa…». Josam si volta verso Afaf, seduta al suo fianco. Negli occhi di lui scintilla un invito gentile al coraggio delle parole. Ci sono forza e fiducia nel suo sguardo profondo. Afaf ci si aggrappa, comincia a parlare, ma la voce si frantuma in tremendi singhiozzi. Ci investono schegge di disperazione. «Scusate, io piango subito…». Noi restiamo bloccati: siamo sorpresi, impacciati. Soltanto Maria Rosaria riesce a muoversi per allungarle un fazzoletto e un sorriso pieno di umilissima comprensione. «Scusate, adesso riprovo… Io e mio marito lavoravamo insieme e ci hanno licenziati all’improvviso. Abbiamo perso subito la casa con lo sfratto. Anche noi siamo occupanti come Josam. Abbiamo due bimbe, la più grande ha tre anni, la più piccola due. Sappiamo che non abbiamo diritto a star lì, ma davvero non sappiamo dove altro andare. Adesso siamo sotto sgombero…». Mentre Afaf prende fiato, asciugandosi gli occhi, mi chiedo quale tipo di esempio sappiamo essere per queste persone. Abbasso gli occhi. Provo vergogna. «La vita di un occupante è estenuante. Tutto resta appeso alla speranza che non vengano a buttarci fuori. Viviamo sempre nella paura, perché se vengono non sappiamo dove ci porteranno… e le bimbe partecipano in tutto e per tutto. L’altro giorno ho trovato la mia più grande che dormiva abbracciando la sua biciclettina. Mi ha detto che, se arrivava la polizia, lei sarebbe stata già pronta con il suo gioco preferito da portare con sé... ».
È difficile ora chiudere l’incontro. Per fortuna Maura, con l’abilità dell’esperienza, ci lancia una domanda come fosse un salvagente: «Sentite: quali comportamenti concreti possiamo adottare allora? Quali esempi buoni possiamo diventare noi stessi per le bimbe di Afaf e per tutti quelli che, come loro, ne hanno bisogno?».
Solo un attimo di silenzio e poi parte una pioggia torrenziale che disseta la nostra arsura: «Non bisogna lasciarsi mettere gli uni contro gli altri»; «Possiamo vivere meglio fra italiani e stranieri cercando alleanze»; «Se qualcosa ci fa soffrire, possiamo dirlo»; «La politica deve migliorare, dobbiamo usare bene il voto»; «Continuare sempre a sperare»; «Cercare armonia dovunque»; «Ricordarsi la solidarietà»; «Sforzarsi di capire le ragioni dell’altro».
Maurizio chiede la parola. «Scusate, io non voglio fare il profeta, ma guardiamo cosa chiede Dio. A Dio basta una sola persona giusta, per salvare tutti. Che poi è molto poco in proporzione al male che c’è, no? Gli basta poco per salvarci… allora, io abolirei questa cosa del “buon esempio”… detto così è troppo difficile, c’è troppa responsabilità, non mi piace questa pesantezza! Piuttosto pensiamo a comportamenti piccoli. Tipo: io mi chino per strada a raccogliere una cartaccia, uno mi vede e pensa, “Ah! A Bologna si fanno queste cose: lo posso fare anch’io”, vede un’altra cartaccia e la tira su… capito come? In fondo siamo tutti legati gli uni agli altri. Com’era quella frase? “Un battito di farfalla qui, può diventare un tornado non so dove…”».
«Bella questa, non la sapevo…», commenta sorpresa Maria Rosaria. Mi fermo. Sorrido. Ringrazio.