Sulla cattiva strada

La modalità non omologata di Fabrizio De André di seguire Gesù, filosofo dell’amore

 di Brunetto Salvarani
teologo, scrittore e giornalista

 Il miracolo di un 45 giri

Posso partire da una notazione autobiografica? Il mio primo De André lo incontrai la bellezza di quarantacinque anni or sono, in uno di quei già caldi pomeriggi di tarda primavera in cui le giornate allungate spingevano noi cattoadolescenti della zona di San Nicolò in Carpi a dirigerci dopo i compiti, tutti i santi giorni, nella rudimentale ma ben attrezzata sala per giovani che avevamo adibito presso i frati.

Dove campeggiava un giradischi da battaglia, rifornito di apposite munizioni – rigorosamente a 45 giri – grazie al gruzzoletto che si formava con le pene pecuniarie degli sconfitti a cotecchio; e dove qualche illuminato fra noi, non ricordo più chi ma Dio lo benedica in eterno, un giorno fece spuntare dal nulla un vinile di un certo De André il cui Lato A conteneva Il pescatore. Fu, diciamolo senza retorica, una rivelazione immediata, tanto che ben presto l’oggetto in questione si consumò a furia di utilizzi reiterati, lasciando malinconicamente quasi intonso il Lato B, Marcia nuziale, ai nostri palati musicali dell’epoca ben più anonimo e di scarsa presa. Subito ne facemmo un hit da messa, senza curarci dei commenti problematici del matusa di turno: anche perché, pur di tenerci in zona, padre Dionisio avrebbe fatto buon viso persino al tartiniano Trillo del diavolo (per dire). E perché, da teologo in erba quale già cominciavo a immaginarmi, andavo pontificando di una plausibile lettura del brano in chiave liturgica, forte di versi che - mi pareva e mi pare ancor oggi - alludono ai gesti cruciali di ogni eucaristia: il prendere il vino e lo spezzare il pane, ovviamente. Come capita in casi del genere, in poco tempo fu per il nostro gruppetto indispensabile procurarsi informazioni, e non fu facile, sul personaggio. Genova come milieu, una certa aria da poeta maledetto, la passione per i gatti randagi e i derelitti di ogni risma, poco altro; e il primo acquisto a 33 giri, quel Tutti morimmo a stento recuperato da una bancarella vintage ante litteram che finii per imparare a memoria e fece preoccupare non poco mia madre, costretta a condividere quell’ascolto così noir e all’apparenza privo di speranze. Ma fu con La buona novella che il quadro si compose definitivamente: certo, erano vangeli apocrifi liberamente rielaborati e messi in musica da un punto di vista altro, ma erano pur sempre vangeli. E quell’otto che ottenni nel tema libero assegnatomi all’inizio della quarta ginnasio, dedicato a De André, fece il miracolo. Il suo ascolto fu accettato in famiglia, mentre i suoi dischi mi avrebbero accompagnato fedelmente nelle mie rotte successive, cambiando formato ma conservando immutata la certezza di avere incrociato all’ombra dell’ultimo sole, quel pomeriggio fortunato, un cantante, un musicista e un poeta splendidamente fusi in una sola persona. Che con Il pescatore raccontava in effetti di un personaggio postosi su una cattiva strada, così come avrebbe fatto di regola negli album seguenti. Cattiva, beninteso, per i benpensanti di ogni risma, mai in grado di guardare il cuore delle cose per restare perennemente in superficie e conservare la propria poltrona… 

Rigettando qualsiasi omologazione

Ora, l’immagine della strada non è priva di sottintesi, per Fabrizio. Perché i mille protagonisti delle sue canzoni - prostitute come Bocca di rosa e assassini, bevitori e bombaroli, nativi americani e zingari, tutte anime salve - li s’incrocia, in genere, proprio on the road. Perdute e rifiutate dal potere, esse si pongono alla ricerca di un punto di riferimento, una bussola credibile, o qualcuno che sappia accettarli così come sono, senza false ipocrisie né pregiudizi. E rigettando qualsiasi omologazione cui la società massificante vorrebbe spingerli. L’anima salva (al plurale è il titolo del suo ultimo album, uscito nel 1996), per De André, è l’individuo capace di attraversare il disagio per provare a somigliare a se stesso, senza cedere al conformismo o ricorrere all’uso della forza; finendo così con il risultare pericoloso per il potere, in quanto esempio di un modo altro d’intendere il mondo e le relazioni sociali. Questa è anche la chiave di lettura de La cattiva strada, pezzo composto con Francesco De Gregori presente in Vol. 8 (1975), in cui, ovviamente per strada, si snoda un’insolita processione: un soldato, una regina (che allude a una prostituta o a un travestito), un pilota di aeroplani, un giovane appena maggiorenne e già alcolizzato e alcuni giurati, tutti intenti a marciare dietro uno strano messia che li provoca, invitandoli a non seguirlo. Il suo comportamento è tanto paradossale quanto rivelatore: sputa negli occhi al militare per spingerlo ad aprire gli occhi e lasciare le armi; la regina viene da lui derubata dell’incasso del proprio lavoro; trucca le stelle all’aviatore costringendolo a un incidente; mentre il bicchiere dell’alcolizzato e un bacio stampato sulla bocca ai giurati finiscono per indicare una sorta di pedagogia alla rovescia che conduce in fretta a un cambio di rotta. Così, anche se i testi deandreiani di quella stagione appaiono assai ermetici, non è forzato vedere ne La cattiva strada la storia di un uomo che, senza imposizioni morali, apprende ciò che è giusto solo dopo aver sbagliato tanto, e mettendo poi gli altri di fronte ai loro errori, al fine di smuoverne le coscienze. E il termine cattiva, qui, significa proprio il contrario di ciò che ci si aspetta: sulla cattiva strada andranno i benpensanti, non certo quanti cercano in ogni modo di andare e guardare oltre. Con la voce di Fabrizio che fa il resto, dolce, ironica e disincantata, ma sempre traboccante di umanità.

 Un’entità sopra le parti

Si noti: per il cantautore genovese è proprio il rifiuto dell’omologazione che conduce alla maturazione spirituale. Non a caso, ai suoi occhi, le radici di anarchia e cristianesimo erano comuni, tanto da fargli trovare una forte connessione fra i due percorsi, come ammise in una delle sue ultime interviste: “C’è chi è toccato dalla fede e chi si limita a coltivare la virtù della speranza… Il Dio in cui nutro speranza non ha mai suggerito ai suoi seguaci i sentimenti della calunnia, dell’odio, della vendetta… Il Dio in cui, nonostante tutto, continuo a sperare è un’entità al di sopra delle parti, delle fazioni, delle ipocrite preci collettive; un Dio che dovrebbe sostituirsi alla cosiddetta giustizia terrena in cui non nutro alcuna fiducia, alla stessa maniera in cui non la nutriva Gesù, il più grande filosofo dell’amore che donna riuscì mai a mettere al mondo”.

 Dell’Autore segnaliamo:
La Bibbia di De André
Claudiana, Torino 2015, pp. 100