Essere ciò che dobbiamo essere

Il Signore stesso ci collocò come modello ad esempio e specchio non solo per gli altri uomini, ma anche per le nostre sorelle 

di Chiara Francesca Lacchini
monaca clarissa cappuccina del monastero di Fabriano

 Il sale e la luce

«Dare il buon esempio»: agire bene ponendosi come modello per gli altri; essere edificante, essere educativo, educare, indurre al bene, consolare, confortare. Questa è l’idea che ci facciamo sfogliando i vocabolari della lingua italiana.


Spesso, e non solo in ambito cristiano, si parla tanto di «dare il buon esempio», salvo poi accorgersi che dietro si cela un senso di frustrazione e sconfitta. Siamo spettatori e attori di consumismo, ingiustizie, prevaricazioni e cattiveria e siamo tentati di chiederci che differenza può fare «dare il buon esempio» in un mondo in cui sembra proprio che ognuno viva perseguendo i propri interessi.
Allora possiamo crearci l’alibi della banalità pensando che «se ci fosse Dio, se il destino fosse diverso, se esistesse la provvidenza, certe cose non accadrebbero». La fede ci insegna che Dio, il destino, la provvidenza hanno messo noi tutti in questo mondo perché lo custodiamo e lo facciamo crescere attraverso la nostra vita, il nostro pensare, il nostro lavorare, le nostre relazioni.
«Dare il buon esempio» potrebbe essere declinato con le parole evangeliche che ci ricordano: «voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo. Il sale non è fatto per perdere il sapore e la luce non è fatta per essere invisibile» (cfr. Mt 5,13-14). È significativo che per dire alcune caratteristiche del credente vengano usati due elementi che sono ciò che devono essere e fanno ciò che sono, ma sempre in relazione a ciò che toccano; il sale lasciato nella saliera è sale ma non esplica la sua funzione; la luce, se non venisse in contatto con le cose, non manifesterebbe la sua “vocazione” di dire la verità su ciò che è creato e darle volto.
Quando Chiara di Assisi riconosce di essere collocata come modello ed esempio per gli uomini ma, prima di tutto, per quella porzione di umanità che è il nucleo delle sorelle con cui ordinariamente condivide la vita, non pensa che si tratti di fare delle cose per apparire buoni, ma di vivere secondo la forma del santo vangelo in quel luogo specifico dove la provvidenza l’ha collocata, in relazione con altre donne che, come lei e con lei, hanno intravisto nel vangelo la forma della loro vita.
Se dovesse accadere che delle sorelle che vivono il loro essere Chiesa in una forma di separazione hanno qualcosa da dire ad altri fratelli e sorelle, questo è solo perché esse stesse per prime cercano cose buone, e faticano ad essere loro stesse per prime come quello che cercano.

 Il fondamento della fede

Chiederci in che cosa delle monache possano essere “esempio e specchio” è, in sostanza, chiederci quali siano le caratteristiche evangeliche che possono emergere da una vita evangelica in fraternità, e cosa possano dire anche a chi vive fuori da uno spazio circoscritto come quello di un monastero.
Il primo e fondamentale ambito di esempio e testimonianza reciproca a cui Chiara di Assisi richiama è la fede. E siccome la fede non attiene all’ambito della vita privata ed intima ma all’essere popolo di Dio, come credenti siamo sollecitate a convertirci costantemente, per donarci reciprocamente il volto bello del Cristo.
Lui è lo specchio in cui poter guardare la vita, Lui la luce capace di dare visibilità a quell’esempio e testimonianza che tutti desideriamo avere dagli altri. Sembrerebbe strano che in un monastero si debba essere sollecitate ad offrirsi l’esempio della fede, eppure è così: siamo qui perché attratte dal vangelo, ma possiamo rimanere qui e avere un minimo di significanza se rimaniamo in un atteggiamento di apertura e conversione per guarire dalla nostra incredulità. «Convertiti e credi al vangelo», ci viene ricordato all’inizio di ogni celebrazione annuale della quaresima. Questo sembra suggerirci che l’opera fondamentale, più faticosa ed essenziale alla conversione è imparare a credere.
Imparare a credere che Dio esista? Imparare a credere ai dogmi della fede? Imparare a credere ai comandamenti? Certamente tutto questo è importante, ma può anche essere soltanto un esercizio di memoria che tiene a posto la nostra coscienza senza cambiare la nostra vita in profondità. Dove si impara a credere? Non nel tempio, non in chiesa, non nelle nostre riunioni spirituali, ma nella vita di ogni giorno. Là dove sperimentiamo la fatica del vivere, le avversità con cui ogni esistenza si cimenta, la prepotenza dei malvagi e la debolezza dei fragili, la seduzione del male e la delicata consistenza del bene; là siamo chiamati a convertirci e a credere al nostro Dio, un Dio che ci viene presentato dalle Scritture umanamente chino sulla sua creatura per offrirle sempre una via di scampo, una prospettiva di salvezza, una protezione anche dopo aver punito, un abbraccio anche dopo l’ira, la pace dopo la “vendetta”. Un Dio che ci ricorda la speranza oltre ogni speranza, la possibilità di attendere ancora qualcosa quando tutto appare consumato. 

Tempo e spazio alla Scrittura

Quello verso cui siamo sollecitate a camminare, con Chiara di Assisi, è imparare a credere che la certezza che ci sarà salvezza non è un certificato di assicurazione, neanche all’interno di un monastero; e che occorre saper accogliere, saper comprendere, elaborare la promessa del bene e della felicità. Occorre farsi trovare, cooperare con la possibilità che ci viene offerta, con le occasioni che la vita ci pone innanzi. Provare e riprovare, attendere e operare, ritentare dopo l’errore, rischiare, accogliere e non disperare.
La fede di un credente, peccatore ma felice di essere raggiunto ogni momento dalla buona novella del vangelo - questo vorrebbe essere anche una sorella e compagna di Chiara di Assisi - può convincere ad avere speranza, in questi tempi faticosi ed affaticanti; a far crescere la speranza che qualcosa sopravvive dopo la prova, che un chiarore albeggia al fondo dell’oscurità, che una consolazione porrà fine al dolore.
Voglia l’Eterno forgiare la nostra vita nella fucina della fraternità, perché le nostre relazioni reciproche possano essere esempio e specchio per una vita non competitiva ma comunionale, dove l’altro è e resta fratello e sorella, qualunque cosa accada.
Non so se siamo esempio e specchio di qualcosa, ma se così fosse, sarebbe bello essere testimoni della Pasqua, della bellezza della vita nuova donata, della certezza che c’è un modo “visionario” di guardare e vivere nella storia e con gli uomini: quello offertoci dall’Amore, che porta in sé qualcosa che sopravvive alla morte, che assume la forza di quella vita impaziente nell’annunciare e nell’avvertire, nell’aver cura e nel benedire, e nell’operare perché altre croci non oscurino il cielo dei viventi.
La vita che facciamo ci ha convinto che la preghiera aiuta in questo. Non il dire preghiere ma la decisione ferma di dare tempo e spazio alla Scrittura, lasciando che Qualcuno ci sorprenda nel nostro vivere quotidiano.