“In missione” presenta la missione più “giovane” tra quelle in cui sono impegnati i cappuccini dell’Emilia-Romagna, la Georgia, attraverso le parole del vescovo, mons. Giuseppe Pasotto, amministratore apostolico del Caucaso, che conosce bene quella terra di frontiera, nella quale vive da oltre vent’anni.

Saverio Orselli

 Passi avanti di una pentola a pressione

Intervista a mons. Giuseppe Pasotto, amministratore apostolico del Caucaso

 Dopo il racconto di padre Filippo Aliani dei primi tre anni di vita missionaria in Georgia, pubblicata da Messaggero Cappuccino nel numero di marzo-aprile 2016, e dopo aver cercato per qualche mese di raccoglierne la voce, ospitiamo con piacere l’intervento dell’amministratore apostolico del Caucaso, il vescovo mons. Giuseppe Pasotto, padre stimmatino veronese trapiantato in Georgia all’inizio degli anni novanta, per rispondere a una chiamata missionaria. Le sue parole ci fanno conoscere la realtà georgiana che si sta preparando ad accogliere papa Francesco che, in settembre, visiterà quella terra caucasica, dopo aver fatto tappa in Armenia a fine giugno.

 

 Mons. Pasotto, può presentare brevemente la sua esperienza missionaria in Georgia? Perché ha scelto proprio questo Paese?
A dire il vero, io non ho scelto la Georgia. Io sono un religioso consacrato degli Stimmatini, una piccola congregazione nata duecento anni fa a Verona, fondata da san Gaspare Bertoni, che come carisma dovrebbe avere un cuore aperto al mondo e la disponibilità a servire le chiese locali in obsequium episcoporum. Io vivevo a Verona, dove sono stato insegnante di educazione fisica, religione, formatore dei postulanti e responsabile della pastorale giovanile e dove ero incaricato anche di un antico monastero adibito all’accoglienza, per l’aiuto spirituale alle persone.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il card. Ruini - allora presidente della Conferenza Episcopale Italiana - in un incontro con i superiori generali chiese alle congregazioni religiose di essere disponibili all’aiuto pastorale verso i Paesi dell’Est, qualora ce ne fosse stato bisogno. Al nostro superiore generale arrivò una richiesta dalla Santa Sede per la Georgia. Mi piace pensare che il nostro arrivare in Georgia - che considero un bel matrimonio tra la necessità della Chiesa e la disponibilità della nostra congregazione - non è stato il frutto di una scelta ma di una disponibilità. Subito, nel 1994, siamo partiti in due confratelli, senza nemmeno vedere prima dove saremmo andati, con due valigie, gioiosi e disponibili a servire quella piccola Chiesa locale che ci aspettava. Due anni dopo mi è stato chiesto di diventare amministratore apostolico, cioè colui che guida la Chiesa con i compiti del vescovo; con fatica ho accettato, sapendo bene che non ero stato preparato a questo, ma anche consapevole che poteva essere un modo “strano” di servire la Chiesa locale, in linea con il carisma degli stimmatini. Mi sono accorto allora e continuo ad accorgermi che Dio ha una fantasia immensa per portare avanti la sua storia di amore, e ha una capacità di inventiva e di rischio che sorprendono sempre.

 Per italiani che molto probabilmente non sanno neppure dove si trovi esattamente la Georgia, come può presentare la situazione della società georgiana oggi? Il Caucaso, che molti osservatori definiscono una pentola a pressione, può davvero essere un pericolo per i fragili equilibri internazionali o si tratta di un eccessivo allarme, funzionale a mettere in cattiva luce possibili avversari?
Forse vent’anni fa la Georgia era sconosciuta alla maggioranza degli italiani. Quando io sono partito, conoscevo Tbilisi per la squadra di calcio, la Dinamo Tbilisi, che vi giocava, ma sapevo poco della Georgia, convinto fosse tutto Unione Sovietica, ma ora non credo sia una nazione sconosciuta… Personaggi come Eduard Shevardnadze o Mikhail Saakashvili, eventi tragici come la guerra lampo con la Russia nel 2008, la partecipazione degli atleti georgiani alle manifestazioni sportive, il turismo in crescita e il fatto stesso, come nazione, di far parte del consiglio di Europa e che si sta valutando la possibilità di togliere per i georgiani la necessità di visto per viaggiare in Europa dimostrano che la conoscenza della Georgia è diversa.
Certo la Georgia vive ancora una difficoltà economica grave, che il turista forse non vede quando arriva a Tbilisi o a Batumi, che sono città rinnovate proprio per il turismo, mentre le altre città, i paesi di campagna, le periferie, sono ancora toccate dalla povertà e dalla mancanza di strutture, con poche fabbriche e un’economia agricola spesso ancora primitiva.
Le associazioni caritative - tra queste in primo luogo la nostra Caritas - e le congregazioni religiose presenti (Camilliani e Suore di Madre Teresa, in particolare), hanno un grande lavoro che devono rinnovare ogni anno e ampliare l’assistenza alle persone più bisognose, con mense per i poveri, centri per ragazzi e giovani, assistenza domiciliare per gli ammalati, progetti di sviluppo.
È vero anche che vent’anni fa spesso mancava l’energia elettrica, il gas, l’acqua e le strade erano piene di buche, mentre ora la situazione è cambiata; esiste una piccola assistenza sanitaria e qualcosa lentamente si muove specialmente nel campo del turismo e dell’agricoltura, ma ci sono ancora tanti passi da fare.
Per quanto riguarda l’immagine della “pentola a pressione” riferita a questa regione, credo sia ancora vera, anche se ora si respira un momento tranquillo. Queste zone sono sempre imprevedibili per l’importanza geografica di questi territori e per la democrazia ancora giovane.

Ci può presentare la situazione della Chiesa cattolica in Georgia: è una Chiesa in grado di camminare sulle proprie gambe o ha bisogno della presenza dei missionari e qual è il loro ruolo?
Quella in Georgia è una piccola Chiesa. Rappresenta quasi l’1% della popolazione ed è suddivisa in tre riti (latino, assiro caldeo e armeno). Si può dire che lungo i secoli la presenza dei cattolici, pur avendo avuto alti e bassi, è sempre stata attiva e partecipe della vita della società. Tante grandi figure nazionali, conosciute da tutti, sono state cattoliche (nel campo artistico, musicale, culturale ed educativo in particolare), e questo ha favorito anche la stima di cui la Chiesa cattolica ha goduto presso la gente. Il periodo comunista è stato difficile, per la Chiesa cattolica ma ancor più per quella ortodossa. Per i cattolici c’era solo una Chiesa cattolica aperta, ma è stata un seme e dopo l’indipendenza la nostra Chiesa ha ricominciato il suo cammino. Certo non è stato facile; si è dovuto ricominciare quasi da capo: non c’erano catechismi, libri liturgici, strutture, chiese aperte, ma pian piano tutto è ripreso. Ho constatato sempre la solidarietà delle Chiese sorelle in Italia e nel mondo, che hanno saputo sostenerci nei progetti e nelle decisioni che dovevamo prendere. Mi sembra anche di poter dire che la fede cattolica si è salvata grazie al rosario. Per raccogliersi e dire il rosario, infatti, non occorreva il sacerdote e gli anziani con questa preghiera hanno tenuto assieme le piccole comunità sparse nel territorio. Per questo abbiamo voluto che fosse dedicata una chiesa-santuario alla Madonna del Rosario.
Ora credo di poter dire che la nostra Chiesa, in questi anni, se pure non è cresciuta di numero, certo si è rafforzata, è diventata responsabile del proprio cammino, anche se deve ancora fare i conti con tante difficoltà. È frutto della Chiesa locale la consacrazione di cinque sacerdoti di rito latino, e ci sono quattro seminaristi di teologia, mentre gli altri sacerdoti sono ancora donati in maggioranza dalle Chiese di Italia e di Polonia. Un grazie a loro per la generosità. La difficoltà della lingua - la lingua georgiana è originale, antica e di certo non è facile - diventa spesso un ostacolo per trovare altri sacerdoti che vengano in aiuto, ma la nostra Chiesa lentamente sta crescendo.
I sacerdoti inviati dalle altre Chiese sono quindi ancora importanti; portano la loro esperienza e danno con entusiasmo la vita per questa comunità. Anche i padri cappuccini, che sono da pochi anni tornati in Georgia, sono stati capaci di incarnarsi e di diventare sostegno e forza per le comunità che sono state loro affidate. Abbiamo bisogno delle Chiese sorelle sia per il sostegno pastorale, che per quello caritativo. Posso dire comunque che la Provvidenza non è mai mancata.

La particolare attenzione di papa Francesco per il dialogo ecumenico ha reso familiare questo aspetto della vita del cristianesimo a molti che non ne erano a conoscenza. Il dialogo ecumenico in terra georgiana cammina spedito o soffre ancora di incomprensioni secolari?
Fin dall’inizio del mio servizio, con gli altri sacerdoti abbiamo colto che il motivo della nostra presenza qui era certo quello di dare sostegno e sviluppo alle comunità cattoliche che erano rimaste senza pastori, ma poi anche quello di essere segni e motori di comunione con la Chiesa ortodossa e le altre confessioni e religioni. È stata questa la “missione” lasciataci nella sua visita da papa Giovanni Paolo II nel 1999. Il cammino non è facile. La Chiesa ortodossa non riconosce il nostro battesimo e questo ha conseguenze pastorali molto gravi, tanto che i cattolici vengono ribattezzati in concomitanza di certe celebrazioni, come il matrimonio, che non è possibile sia misto. Viene ripetuto continuamente che un georgiano deve essere solo ortodosso e diversi parlano della Chiesa cattolica come di una setta; vengono create difficoltà quando si vogliono fare iniziative particolari o costruire dei luoghi di culto e anche i ragazzi spesso vengono trattati a scuola “diversamente” se sono cattolici.
In certi momenti si arriva allo scoraggiamento, ma cerchiamo di privilegiare ugualmente qualche strada che ci avvicini, come la carità (si può lavorare bene assieme per le persone in difficoltà), la cultura (abbiamo una università nella quale tanti giovani ortodossi frequentano teologia e vivono in un ambiente che permette di guardare in avanti in modo diverso) e la morale (siamo riusciti a fare dei convegni di bioetica assieme al patriarcato e questo non è poco).
Credo che nel campo dell’ecumenismo, nonostante tutto, dobbiamo avere delle certezze nel cuore: se Gesù ha pregato perché tutti siano uno, prima o poi questo si realizzerà e chi lavora per l’unità, alla fine, sarà vittorioso.

A proposito di dialogo ecumenico, come è stato vissuto dalle Chiese cristiane il recente incontro tra il papa e il patriarca di Mosca a Cuba?
L’incontro del papa con il patriarca di Mosca qui non ha fatto gran rumore. Questi incontri non sono da considerare importanti per i risultati immediati che danno, ma per la direzione che propongono e indicano alle Chiese. La direzione su cui camminare è importante, più del singolo passo.

C’è stato qualche sviluppo dopo l’apertura della singolare Porta Santa a Rustavi, di cui mi ha mandato la fotografia, pubblicata qui a fianco?
La porta santa - una porta senza chiesa al centro di un prato - che abbiamo aperto in una città dove ci viene impedito di costruire la chiesa, è stato un segno simbolico. Per la nostra Chiesa, la misericordia spesso prende il nome di pazienza, di attesa, di fiducia, ma anche di giustizia e rispetto. Fino ad oggi non ci è stato ancora dato il permesso per la costruzione, ma abbiamo ancora tanta fiducia. La porta però voleva indicare alla nostra Chiesa che la misericordia deve crescere in noi. Aprendo la porta avevo scritto ai fedeli: «Vorrei che fosse una gioia per tutti voi entrare nell’anno giubilare dedicato alla misericordia. Che bello pensare l’inizio di quest’anno come a una grande porta, bella e pesante che si apre spinta da tutti noi! E che cosa troviamo al di là della soglia che passeremo? Vedremo l’immenso, il non misurabile, la terra dell’uomo che si incontra con il cielo di Dio. La porta dell’anno santo la potremmo proprio pensare come una porta senza chiesa, per capire che la misericordia non ha pareti né confini, non ha il tetto che impedisce di vedere la luce del sole e delle stelle, non ha pareti perimetrali oltre cui non si può andare, non ha proprietario perché è per tutti, non ha posti a sedere riservati, per raccomandati, ma nemmeno posti per stare seduti, perché chiede di essere sempre attivi, disponibili, pronti verso gli altri… non ha niente perché è tutto!».

Infine, cosa si aspetta dalle prossime visite del papa alle terre di cui è amministratore apostolico?
Sono certo che sarà un grande dono. Il papa viene per confermarci nel cammino di fede, ma anche per darci indicazioni per guardare in avanti. Vogliamo vivere l’attesa come momento di preghiera, ma anche come possibilità di scoprire meglio il ruolo e la figura del santo padre all’interno della Chiesa, aiutando anche la Chiesa ortodossa a comprenderla in modo più chiaro. Ma vogliamo anche che la sua venuta tra noi ci spinga verso qualche scelta futura che lasci il segno per la crescita della nostra fede e del nostro essere Chiesa.
Abbiamo pensato a questo viaggio coinvolgendo anche la Chiesa ortodossa, che ha dato dei segni di gioia e di disponibilità. Che il Signore ci sostenga e le preghiere dei lettori di Messaggero Cappuccino ci accompagnino. Dio è sempre sorprendente e, ne sono certo, ci stupirà ancora attraverso papa Francesco.