Fioretto cappuccino

Come frate Felice fu scambiato per un vagabondo imbroglione

 Frate Felice era nato sul mare, a Porto Garibaldi, un tempo un piccolo villaggio di pescatori, non lontano da Comacchio, che in seguito, agli inizi del Novecento, quando il paese fu intitolato a Giuseppe Garibaldi, divenne l’orgoglio dei suoi abitanti.

Quando nacque Canzio - questo il nome di frate Felice alla nascita - il padre con una piccola barca esercitava il duro lavoro di pescatore nelle valli comacchiesi. Convinto che la vita fosse maestra più che un’aula scolastica, non si preoccupava più di tanto che parte dei suoi figlioli non frequentassero i banchi di scuola. A lui importava di più che apprendessero a capire se la notte fosse favorevole per la pesca delle anguille, e che fossero abili nell’evitare le barche delle guardie vallive addette a sorprendere eventuali pescatori di frodo.
Un giorno venne anche per Canzio la chiamata di quel pescatore che era Gesù. Ormai superata l’adolescenza, lasciò Porto Garibaldi per raggiungere il convento cappuccino di Cesena, dove ebbe il nome di frate Felice. Lassù, in quel convento posto su un colle da cui si poteva ammirare tutta la pianura romagnola fino al mare, recuperò il tempo “perduto”, apprendendo a leggere e a scrivere, scegliendo la vita di frate semplice, addetto a qualsiasi mansione ritenuta utile per la vita di una comunità conventuale. E così, nei due anni trascorsi in quel convento apprese l’arte della cucina e il lavoro della questua, per poi iniziare le sue esperienze in vari conventi.
Quando fu trasferito come cuoco nel convento di Bologna, continuò anche il lavoro della questua in città. Nelle ore pomeridiane, libero dalle incombenze della cucina, prendeva l’autobus che lo portava nei luoghi conosciuti e là sceglieva accuratamente quali campanelli suonare, perché non voleva incontrare gente poco garbata con un frate. Un giorno però ebbe una svista. Forse un po’ sovrappensiero, pigiò erroneamente il pulsante di un campanello sconosciuto. Quando se ne accorse, era troppo tardi. La porta si aprì lasciando un piccolo spiraglio, da cui apparve una donna, che non fece mistero della sua meraviglia: «Ma chi è lei?». Frate Felice non era di molte parole e per di più balbettava leggermente. Non riuscì subito a rispondere, ma poi disse a mezza voce: «Sono frate Fffelice… del convento dei cappuccini dddi San Giuseppe. Sssono venuto per cercare un po’ di provvidenza per il convento». La donna lo squadrò da capo a piedi con sospetto, poi richiuse sgarbatamente la porta, non prima di avergli detto: «Qui di soldi non ce n’è per nessuno. Specialmente per i frati!».
Frate Felice, come si può immaginare, ci rimase male, ma poi, pur con il magone in gola, continuò nel suo giro per le case, attento a non sbagliare campanelli, finché si portò alla fermata dell’autobus per fare ritorno in convento. Aspettava in silenzio e con aria compunta, controllando tutto, muovendo solo gli occhi senza girare la testa. Improvvisamente si materializzò accanto a lui la macchina di una pattuglia di carabinieri, da cui scesero due uomini in divisa: «Favorisca i documenti, prego!», ingiunsero a frate Felice con fare alquanto spiccio. Il frate tutt’altro si aspettava che vedere due carabinieri “assalire” così bruscamente un frate, e per di più di fronte a tanta gente in attesa dell’autobus. «Io sono frate Fffelice del convento dei cccappuccini di Bologna!». «Poche storie! Favorisca i documenti!». Frate Felice, che credeva di avere già detto tutto, estrasse la carta di identità e la porse ai due carabinieri, che la controllarono, guardando alternativamente il frate e la foto del documento. Infine si avvicinarono alla macchina e via radio si informarono: tutto regolare. Telefonarono pure in convento, e il frate portinaio confermò che Canzio Trasforini - così era scritto sulla carta di identità - era proprio un frate del convento. «Può andare, frate. Ci scusi!», si limitarono a dire a frate Felice, prima di andarsene forse un po’… delusi, perché non è cosa di tutti i giorni sorprendere un imbroglione sul fatto. Ma facciamo un passo indietro per comprendere il motivo dell’improvvisa apparizione dei carabinieri.
La donna della casa a cui frate Felice aveva suonato erroneamente si era convinta che quel frate era uno dei tanti pericolosi farabutti che si aggiravano nei paraggi travestiti in tutte le maniere. Aveva così cercato sull’elenco telefonico la voce “convento dei cappuccini di San Giuseppe». Aveva composto il numero e, quando sentì il «pronto» del frate portinaio, raccontò subito la cosa: «Oggi ha suonato alla mia porta a San Lazzaro un tale vestito da frate. È dei vostri? A me sembrava un vagabondo e un imbroglione!». Il frate portinaio sapeva che frate Felice nelle ore del pomeriggio usciva per la questua, ma, preso alla sprovvista e sapendo pure lui, per esperienza personale, che non difettavano vagabondi vestiti con il saio da frate a chiedere soldi, volle sapere qualcosa di più: «Che aspetto aveva? Aveva la barba? Era alto o basso, magro o grasso?». La donna esitò alquanto, poi rispose: «La barba? Non saprei. Forse no. Ricordo però che era basso e grosso». Al frate portinaio non risultava che esistesse nel convento un individuo così descritto; frate Felice era abbastanza alto di statura, e, benché non fosse proprio uno scheletro, non poteva certo dirsi grasso. «No, signora, un frate come lei ha descritto non esiste in convento». Il click del cornetto del telefono indicò che la conversazione era finita, e il frate portinaio si convinse che si trattasse solo di uno scambio di persona.
Qualche tempo dopo frate Felice fece ritorno in convento. Entrò con una faccia scura che più scura non poteva, non disse una parola, tirò dritto e si affrettò a rifugiarsi nella sua cella, senza più uscire fino a cena, dove apparve più taciturno del solito, ma quasi nessuno vi fece caso, perché gli umori dei frati a volte sono anche altalenanti. Al frate portinaio non sfuggì invece quell’atteggiamento inconsueto e, conoscendo bene frate Felice, intuì che il vagabondo della storia raccontata dalla donna fosse proprio lui, ma si guardò bene dal fargli il benché minimo accenno, perché conosceva il carattere suscettibile di frate Felice.
Trascorsero alcuni mesi, senza che frate Felice facesse neppure un cenno alla sua disavventura. Solo più tardi, quando ormai la ferita si era un alquanto rimarginata, pur non del tutto, sputò il rospo, e confidò la sua amarezza a un confratello, che manco a dirlo era proprio il frate portinaio: «Per il “Dossi” (il padre provinciale di allora faceva di cognome “Dozzi”, ma frate Felice pronunciava la zeta come una esse) è indifferente dire una mmmessa qui e una mmmessa là, anche dove non è conosciuto, mmma… ssso bene io che cosa vuol dire suonare un cccampanello sbagliato, quando la gente non sa chi sssei!». Il frate portinaio abbozzò un sorriso di compunta comprensione e, trattenendo a fatica una grassa risata, non si azzardò a chiedere altro. D’altronde che cosa poteva chiedere se sapeva già tutto?