Maura ed io ci confrontiamo al volo prima di cominciare l’incontro. Siamo preoccupate. “La persecuzione dei cristiani” è un tema troppo difficile e fin troppo delicato da proporre per il tè con i nostri amici. Considerando le loro differenti provenienze e le loro storie personali, un argomento di questo tipo rischia davvero di essere frainteso e interpretato in modo ideologico.

a cura della Caritas di Bologna

 Incontrarsi raccontandosi

La condivisione di esperienze vissute crea comprensione ed empatia

 Strategie preliminari

Noi desideriamo che gli scambi fra i nostri amici facciano emergere soprattutto le loro esperienze di vita, insieme alle riflessioni che possono scaturire dal confronto con un quotidiano difficile e duro ma concreto, vero, autentico.

Vorremmo che affiorassero e venissero scambiati più gli atti di esistenza che le opinioni. La realtà supera le idee, come ci ricorda papa Francesco e di confrontarci con la realtà di queste persone diversamente ricche, abbiamo tutti enorme bisogno, oggi più che mai.
«Che dici? Allarghiamo anche oltre il discorso strettamente religioso?». Annuisco, convinta. È bello sperimentare un’intesa immediata e profonda. Cominciamo.
Maura lancia il tema. La sua voce decisa calamita l’attenzione del cerchio: «Oggi parleremo di persecuzioni». Qualche sedia scricchiola e percepisco un po’ di agitazione. «Persecuzioni che abbiamo subito nelle nostre vite o che abbiamo osservato intorno a noi; quelle a sfondo religioso, certo, ma anche di altro genere: di tipo politico, o magari sofferte per via dei propri ideali o a causa del proprio stile di vita, così come per ogni scelta compiuta che può non essere stata gradita dal potente di turno… Vorremmo concentrarci sulle vostre esperienze. Vorremmo dare voce alle vostre vite, perché dentro ogni nostra esperienza c’è sempre un grande valore, proprio un’enorme importanza e ricchezza. Che dite? Siete d’accordo?».

 Scomparsa

Per un attimo mi spavento. Nessun movimento, nessun rumore. Cerco di capire meglio e noto uno scambio di occhiate parlanti tra i presenti. Davvero a volte basta uno sguardo per intendersi. Sono tutti d’accordo, ma ognuno sta cercando in silenzio le proprie parole piene di vita da condividere. Carlos si alza e va a versarsi un bicchiere di tè bollente. Mi sorride, cortese, tornando a sedersi. Gli vedo balenare una storia negli occhi. D’un tratto realizzo che stiamo per ricevere il primo regalo e sono felice. Carlos beve un lungo sorso poi prende fiato: «Di persecuzioni potrei dirvi tanto, come sapete vengo dall’Argentina. Ma oggi voglio parlarvi di un altro tipo di persecuzione. Vorrei parlarvi di Giorgiona. L’avete mai conosciuta? Io ho fatto amicizia con lei in mensa, siamo diventati amici mangiando insieme. Sapete? Lei ha vestito la regina di Inghilterra, possiede delle ville in Francia, ha una casa piena di quadri di Renoir e dice di aver parlato tante volte con quel delinquente di Hitler. Certo, Giorgia ha problemi mentali, ma credetemi, non è affatto una stupida… aveva un posto in dormitorio, ma ad un certo punto hanno scoperto che aveva riempito la sua stanza di cianfrusaglie come fosse un magazzino. Dicevano che non era sicuro averla lì. Che c’era urgenza di cercarle un’altra soluzione. E sapete che bella idea hanno avuto? Le hanno trovato un ente disposto a darle un alloggio in cambio della sua misera pensione. Ma vi pare questo il modo? Avrebbe mai potuto fidarsi di qualcuno senza neppure un minimo di conoscenza e affidare così, di punto in bianco, tutto ciò che possedeva a degli estranei? Lei che si sente tranquilla solo se può accumulare delle cose? Quindi Giorgia ha preso il suo carrello, l’ha stipato di cose ed è scappata via. È sparita nel nulla e nessuno sapeva più dove fosse… L’hanno anche cercata, ma non si riusciva più a trovare. Poi un giorno, per caso, mentre ero all’ospedale per degli esami, ho visto spuntare il suo carello e dietro lei… ho scoperto che si era “trasferita” a vivere proprio lì, nei giardini dell’ospedale. Le ho parlato a lungo, ho cercato di spiegarle, di convincerla che non andava bene per lei dormire fuori. Ma Giorgia ora ha troppa paura che le portino via tutto e non si fida più di nessuno… Sapete che vi dico? Per me anche questa è vera persecuzione: quando non si tiene conto della fragilità e della delicatezza delle persone e si continua a farle soffrire, tanto poi non si possono difendere e nessuno se ne accorge. È persecuzione quando si dice di voler aiutare chi già soffre e poi non si è disposti a costruire una relazione di fiducia con queste persone… Molti credono che nella civilissima Italia le persecuzioni non esistano, beh io dico che forse dovremmo guardarci meglio intorno: nelle strade, sulle panchine e nei parchi delle nostre città…».

 Colpevoli e vittime

«Io penso che davvero ci siano tanti cristiani perseguitati nel mondo» interviene Vincenzo con tono deciso «ma qui io vedo anche tanti cristiani che riducono Dio ad un’idea, mentre invece il cristiano vero è quello che vive ciò in cui crede. Ma ci rendiamo conto che oggi la stessa gente che va in chiesa, quando ci vede per strada, ci insulta? Non solo non ci aiutano, ma si lamentano per il solo fatto che siamo poveri, come se fosse una colpa… E questa non è forse una persecuzione?».
La voce di Maurizio apre allo scambio una dimensione di dolcezza: «Mah, non so. Non sono convinto che sia utile dividere il mondo in persecutori e perseguitati… Perché quando io mi sento vittima, immediatamente mi vien voglia di rifarmi e di diventare persecutore a mia volta. Avete mai notato che i peggiori persecutori hanno sempre delle scuse nobili e dichiarano di essere stati vittime di ingiustizie intollerabili? Ecco, forse ognuno di noi dovrebbe solo riconoscere che dentro di sé è in parte vittima e in parte colpevole e poi cercare concretamente di migliorarsi, quando si accorge di aver sbagliato».
«Sì, sono d’accordo», è la voce di Leone dall’altra parte della stanza «ci sono persecuzioni che uno si crea da solo, pensando in continuazione a tutto quello che gli manca e che vorrebbe. Oppure quando la vita ci dà una possibilità, ma abbiamo paura e rinunciamo. Così ci si taglia le gambe. Le peggiori persecuzioni sono quelle che ci infliggiamo da soli. A volte io mi sento perseguitato da me stesso, a causa di tutti gli errori che ho commesso. Ma ho anche sperimentato che se ne può uscire con pazienza e un po’ di aiuto».

 Nato per salvare gente

La voce di Enoch catalizza l’attenzione: «Sono un pastore missionario. Vengo dal nord della Nigeria. Nel mio villaggio un giorno è arrivato l’esercito di Boko Haram. Ci hanno preso dalle case e radunati tutti insieme. Eravamo più di cento. Ad ognuno hanno chiesto la fede che professava: chi era musulmano, era salvo; a chi dichiarava di credere in Cristo, era data la possibilità di convertirsi. Alcuni l’hanno fatto per paura. Altri non hanno lasciato la loro fede in Gesù, io ero fra questi. Noi siamo stati costretti a salire su un camion. Ci volevano portare nella foresta. Ma prima di farci partire, hanno tagliato la testa a tutti quelli che si erano convertiti. Li ho visti con i miei occhi e ho capito che sarei morto. Allora mi sono buttato dal camion in corsa e così mi sono salvato. Poi ho saputo che i miei confratelli sono stati sepolti con la testa fuori dalla terra e sono stati abbandonati nella foresta.
A volte mi chiedo perché altri cristiani non siano venuti ad aiutarci ed oggi che sono qui, quando vedo dei cristiani che non sanno aiutarsi, il mio cuore si fa amaro come il fiele. Eppure la mia fede mi dice che devo amare tutti, proprio tutti; che devo salvare tutte le vite, ogni vita. Per questo sono sopravvissuto, per salvare altre vite oltre la mia. Tutte le vite sono preziose, tutte vanno salvate. Che senso avrebbe la mia fede se io, ad esempio, lasciassi il mio fratello musulmano sofferente da solo?».
Le parole di Enoch ci hanno paralizzato. Siamo tutti attoniti, muti. Schiacciati. Sconvolti. Nel mezzo del nostro silenzio solo Afaf trova il coraggio delle parole. Sono buttate fuori dalla sincerità della sua indignazione. La voce le esce acuta ed intensa: «Sento rabbia per chi stravolge l’Islam! L’Islam non dice di ammazzare qualcuno perché cristiano! Chi si comporta così è solo un assassino. Ognuno sceglie come agire nella propria vita e solo Dio giudica alla fine! Io so che il tuo sangue è come il mio! Io so che se qualcuno ti dà uno schiaffo, tu soffri come me! So che siamo uguali tu ed io!». Enoch la guarda con attenzione, gli occhi neri vibrano per un attimo di una profondità sorprendente. Come un ponte invisibile, il reciproco rispetto ora li unisce. Comprendo con stupore che si tratta di qualcosa di solido e reale; di qualcosa che regge davvero il peso delle diversità l’uno dell’altra. Incredibilmente si sono raggiunti. Mi incanto a guardarli mentre fioriscono due sorrisi. La voce di lui è tranquilla, rassicurante. Esce armoniosa come una musica: «Hai ragione, anche io so che l’Islam non chiede di uccidere…».
È tempo di chiudere. Il pomeriggio è volato. Maura riesce con la solita maestria a guidarci verso una conclusione condivisa e ci pone una questione: «Allora, ma c’è qualcosa che possiamo fare per superare tutti questi atteggiamenti persecutori di cui abbiamo parlato? Avete in mente qualche strategia semplice e concreta, che cominci proprio da noi, oggi, qui?».
Maurizio batte tutti sul tempo: «Be’ io un’idea ce l’ho. Cominciamo dalle parole. Sono importanti. Proviamo a ribaltare i termini della questione e impegniamoci nelle nostre vite a far diventare la parola “diverso” una parola proprio buona, come merita. Invece di sforzarci di dire che siamo tutti uguali, proviamo a considerare che è veramente bello essere tutti singolarmente diversi. Significa che siamo tutti unici, ineguagliabili, che di ognuno c’è bisogno… Io penso che se cambiamo prospettiva, sarà poi più facile volersi bene insieme…». Mentre accompagno i nostri amici verso la porta, ripenso al nostro pomeriggio e mi dico contenta che, se la speranza ha un sapore, è certamente quello del nostro tè.