La religione nel mirino

Il bersaglio della violenza è sempre chi difende i diritti umani 

di Giulio Albanese
missionario comboniano, giornalista

 La religione strumentalizzata

Le atrocità commesse dai miliziani dell’Isis o Daesh che dir si voglia, in Siria e Iraq, hanno suscitato lo sgomento e l’indignazione a livello planetario.

Ma cosa c’è, effettivamente, dietro le modalità espressive, a dir poco deliranti, di questo movimento jihadista che si sta manifestando come la mannaia del Terzo Millennio? La posta in gioco è alta perché stiamo parlando di un approccio metodologico fondamentale per evitare uno scontro delle civiltà. È questa, d’altronde, la principale preoccupazione di papa Francesco il quale, in più circostanze, come ad esempio nel corso della sua visita a Tirana, il 21 settembre del 2014, ha affermato che nessuno può permettersi di prendere a pretesto la religione «per le proprie azioni contrarie alla dignità dell’uomo e ai suoi diritti fondamentali, in primo luogo quello alla vita e alla libertà religiosa di tutti».
Da rilevare che la strategia comunicativa di questi fanatici è incentrata sulla provocazione, uno dei tratti caratteristici dell’ideologia salafita, quella su cui si reggono le cellule eversive d’estrazione islamica. Il loro intento è quello di strumentalizzare la religione per fini eversivi, attribuendo all’Occidente la responsabilità del degrado mondiale. Certa propaganda integralista sfrutta volentieri la tradizionale apologetica anticolonialista e terzomondista, radicata nell’islam, per avere presa sulle masse che soffrono spesso di arretratezza e frustrazione. Si tratta di una strategia che ha l’obiettivo di terrorizzare chiunque si opponga al loro delirio. Un vero e proprio terrorismo psicologico, veicolato attraverso il sistema multimediale, con l’intento di attribuire una precisa identità antagonista all’avversario.
Ecco che allora l’Europa viene definita cristiana, quando invece, oggi, è forse il continente più bisognoso di evangelizzazione, rispetto ad altre realtà come l’America Latina e l’Africa. I messaggi degli estremisti hanno una valenza oscurantista e perversa. Inoltre, i fautori della sharìa, la legge islamica, non solo dimenticano che l’islam è stato colonialista, attraverso le sue conquiste militari, addirittura più dell’Occidente, ma soprattutto attribuiscono al musulmanesimo un’indole coercitiva e violenta. Sebbene l’impianto teocratico dell’islam - vale a dire la congiunzione tra ciò che è politico e ciò che è spirituale - sia ben sedimentato nell’Umma, vale a dire nella comunità islamica globale, imputare il sorgere di tali movimenti estremisti alla sola reazione antioccidentale, o a cause quali la povertà e lo sfruttamento, è riduttivo e semplicistico.

 Il Medio Evo islamico

Fin dalle sue origini, l’islam è stato attraversato ciclicamente da ondate d’integralismo e di intolleranza a cui, però, si sono alternate stagioni di grande apertura. Basti pensare ai Kharigiti del primo secolo islamico che combattevano per un’ideologia purista e integralista. Di converso, lo stato islamico medievale, in alcune sue fasi, fu flessibile e tollerante. E cosa dire, ad esempio, del sufismo che un tempo ispirava i musulmani alla pacifica convivenza? Una duttilità che si manifestò, peraltro, anche nel novecento (almeno fino agli anni Settanta) quando in Medio Oriente le donne erano libere, ad esempio, di circolare senza il velo (hijab). Ecco perché, oggi, è indispensabile il contributo di musulmani che sappiano vincere le spinte intransigenti che si alimentano di un pensiero mitologico acritico, imposto mediante il monopolio culturale. È possibile allora soffocare culturalmente l’estremismo islamico?
Circa una cinquantina di anni fa, il padre del riformismo islamico iraniano, Ali Shari’ati, affermava che l’islam contemporaneo è nel suo XIII-XIV secolo; e se facciamo un raffronto con la storia europea, cioè con il XIII-XIV secolo, scopriremo che il vecchio continente doveva ancora vedere la riforma protestante e la riforma cattolica. Secondo Shari’ati, per superare il medioevo islamico (sebbene il medioevo cristiano non sia stato un’epoca buia), i musulmani non possono pensare di saltare a pie’ pari cinque, sei secoli, arrivando di colpo alla cultura moderna. «Dobbiamo riformare l’islam - scriveva l’intellettuale iraniano - rendendolo il volano di liberazione delle nostre società ancora ferme a una dimensione sociale tribale, cioè al medioevo dell’Oriente, mentre oggi è lo strumento usato dai reazionari per evitare il progresso e lo sviluppo sociale».
Le parole e la vita di Shari’ati, morto ufficialmente per arresto cardiaco in Inghilterra nel giugno del 1977 (anche se sono in molti a ritenere che sia stato eliminato dalla polizia segreta dello Scià), indicano chiaramente il percorso che occorre seguire. In questi anni, i Paesi occidentali hanno fatto poco o niente per aiutare la società civile musulmana a uscire dall’immobilismo e sostenere politicamente e finanziariamente l’intellighentia islamica moderata. Una sfida che, visti i tempi, non può essere disattesa. Non è una semplice fatalità del destino o una banale coincidenza se le aree d’intervento del jihadismo siano aree sensibili dal punto di vista delle cosiddette commodities (materie prime e fonti energetiche in primis): dall’Iraq (petrolio) alla Somalia (petrolio, gas naturale e uranio), dalla Repubblica Centrafricana (petrolio e uranio) alla Nigeria (petrolio).

 
Lotta all’Occidente

Inquadrare, dunque, la galassia delle forze d’ispirazione jihadista esclusivamente nella prospettiva di una lotta globale contro l’Occidente, sotto una struttura di comando centralizzata indicata come al-Qaida o Isis, non rende conto della complessità del fenomeno in cui entrano in gioco anche questioni locali, proprie dei singoli Stati in cui operano le suddette cellule eversive. Ad esempio, il movimento al Shabaab, in Somalia o Boko Haram in Nigeria hanno trovato ispirazione nei conflitti in atto nei rispettivi territori tra le oligarchie locali, per il controllo del potere. Questi movimenti hanno sempre colpito chiunque osteggiasse il loro progetto: musulmani, cristiani, animisti… Numericamente, ad esempio, i terroristi nigeriani hanno ucciso in questi anni più musulmani che cristiani e ogni volta che hanno perpetrato attentati contro chiese e istituzioni cristiane (gli al Shabaab in Kenya perché il governo di Nairobi è intervenuto militarmente in Somalia e i Boko Haram in Nigeria e nel vicino Camerun) l’hanno fatto perché queste azioni sarebbero state riprese dalle testate internazionali main stream avendo così risonanza a livello internazionale.
Il concetto, poi, di network, indicante una struttura ramificata che non si esaurisce solo esclusivamente nelle aree mediorientali, ma anche in Africa, serve a molti gruppi armati ad attribuire un’identità e un peso politico alla lotta che perseguono contro le forze governative che vi si oppongono. Da rilevare, infine, che le persecuzioni, a volte, si verificano all’interno delle stesse comunità religiose (a fasi alterne, ad esempio, tra sunniti e sciiti in Iraq, Yemen, Siria…) o tra comunità che non includono necessariamente i cristiani, come nel caso del Myanmar (dove i musulmani Rohingya hanno subito ripetutamente violenze, a sfondo etnico-confessionale, dalla maggioranza buddista).
Dunque è evidente che i paradigmi delle persecuzioni di matrice religiosa sono molteplici, comunque eversivi e variano a seconda dei contesti e sempre in via di rimodulazione e ridefinizione, adattandosi alle contingenze geopolitiche dei singoli scacchieri. La religione, perciò, rappresenta spesso, in molti contesti, il pretesto per affermare interessi egemonici, contrari al riconoscimento della dignità della persona umana.