Ama il prossimo che ti sente nemico

Il sacrificio del corpo per dimostrarsi amici ed obbedienti a tutti

 di Fabrizio Zaccarini
vicemaestro dei postulanti cappuccini a Lendinara

 Bisogna esporsi

«Tutte le piaghe sono al sole/ ed Egli muore sotto gli occhi/ di tutti […]. Perché Cristo fu esposto in Croce? […] Bisogna esporsi (questo insegna/ il povero Cristo inchiodato?)»

E san Francesco è subito lì a rispondere al suo amico e fratello poeta Pier Paolo (Pasolini, proprio lui): «Sì, è proprio così!». Improbabile? Eppure nella Regola non bollata san Francesco scrive: «Tutti i frati, ovunque sono, si ricordino che si sono donati e hanno abbandonato i loro corpi al Signore nostro Gesù Cristo. E per il suo amore devono esporsi ai nemici sia visibili che invisibili» (FF 45).
Non so se si debba pensare che Pasolini abbia volontariamente citato san Francesco, gli specialisti definiranno se il film degli uccellacci e degli uccellini renda la cosa sufficientemente sostenibile. Francesco scriveva così per tutti i suoi frati, rivolgendosi in modo particolare a quelli che partivano per andare in missione tra i “saraceni”, cioè tra i musulmani. Così penso a me comodo, comodo, tranquillo, tranquillo, qui a Lendinara, basso Veneto, che confesso penitenti devoti, sgrano rosari e pontifico di queste cose. Capisco subito come va a finire: altro che al nemico, io qui mi espongo a pubblico e meritato ludibrio! Per dare credibilità esistenziale a queste righe, ho chiesto qualche spunto di riflessione a tre cappuccini, fratelli e amici, un postnovizio libanese, fr. Elias Saoud (E. S.), e due nostri missionari in terra turca, fr. Michele Papi (M. P.) e fr. Paolo Raffaele Pugliese (P. R. P.).

 Liberi dalle catene della paura

«Dopo anni di odio verso i musulmani, adesso sono convinto che ero sulla strada sbagliata. Loro cercano sempre di eliminarci. In Libano non c’è la guerra, ma lo fanno in altro modo (demografico, geografico, morale, culturale...) ma di questo parla anche il vangelo (“se hanno perseguitato me…”) e san Francesco lo riprende. Solamente pensando che bisogna esporsi per amore al nemico io posso sciogliermi dalle catene in cui la paura mi aveva bloccato per tanti anni» (E. S.). Provi a disfarti delle tue prigionie di contrapposizione, spogliato dell’odio devi esporti, fragile come sei, al nemico e al disamore. È rischioso? Lo è, ma non c’è altro modo di preparare un mondo nuovo in cui le relazioni non siano più regolate dai rapporti delle forze che violentemente si contrappongono. Il nemico (cioè quello che io sono per l’altro e quello che l’altro è per me) solo così può ricevere l’appello a incamminarsi sulla strada dell’amicizia.
Giro di parole strambo quanto volete, ma che doveva essere importante per la prima fraternità francescana se santa Chiara e le sorelle ne vollero sperimentare drammaticamente l’efficacia e la praticabilità: «una volta, essendo li Saracini intrati nel chiostro del dicto monasterio, epsa madonna se fece menare per fine ad lo uscio del refectorio, et fecese portare innanti una cassetta dove era el sancto Sacramento del Corpo del nostro Signore le Iesu Christo. Et gittandosi prostata in oratione in terra, con lacrime orò, dicendo queste parole intra le altre: “Signore, guarda tu queste tue serve, però che io non le posso guardare”» (FF 3060) e i saraceni, sorprendentemente, rinunciarono a violare le mura del monastero.

 Il Dio vicino al mio

La sfida non tocca solo la questione della modalità di difesa di fronte alla violenza, perché nella quotidianità di ogni giorno c’è da assumere l’atteggiamento «del mendicante che cerca nell’altro protezione, sostegno, vita! È sicuramente una strategia efficace per farsi accettare e per farsi avvertire, anziché come un pericolo, come una persona amica, degna di ascolto anche sulla fede e sulla percezione di Dio. Quel Dio che allora annunceremo non sarà un Dio straniero e minaccioso, ma il Dio del mio fratello che forse non è poi così lontano dal mio» (M. P.).
Di fatto, anche se «ci sono molti che, quando peccano o ricevono un’ingiuria, spesso incolpano il nemico o il prossimo […] non è così, poiché ognuno ha in suo potere il nemico, cioè il corpo, per mezzo del quale pecca. Perciò è beato quel servo che terrà sempre prigioniero un tale nemico affidato in suo potere e sapientemente si custodirà dal medesimo; poiché, finché si comporterà così, nessun altro nemico visibile o invisibile gli potrà nuocere» (FF 159). L’Ammonizione X, appena letta, può anche essere condensata così: «il nemico è il peccato, non l’Islam!» (P. R. P.).
In ogni luogo e per ogni credente, in fin dei conti, la sfida è la stessa: «Quando sono solo ad Antiochia la sera mentre chiudo le finestre, prima di andare a letto, penso: “Chissà se questa è la mia ultima sera…”. D’altra parte se non sai morire per qualcosa, beh, allora cosa vivi a fare? Domanda drammatica, sì, ma non solo per me, qua in Turchia, vicino al confine siriano. È la morale cristiana che è esigente e drammatica. “Questo è il mio corpo dato in sacrificio per voi” lo dico ogni giorno, facendo memoria di Cristo, ma lo dico anche di me. Anch’io sono dato e quel pane/corpo è un cartello stradale enorme, valido per tutti quelli che se ne nutrono» (P. R. P.).
Secondo questa logica di oblazione di sé a caro prezzo, al guardiano stanco dell’insubordinazione dei suoi frati, desideroso di rifugiarsi in preghiera in un eremo, Francesco risponde: «Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia. E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza. E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori. E questo sia per te più che stare appartato in un eremo» (FF 234).

 Ogni giorno la nostra croce

D’altra parte, tanto per rovesciare le carte un’altra volta, anche il missionario ad gentes ha di fronte a sé una quotidianità di peso specifico da affrontare: «La forma di “martirio” che mi sento di dover vivere attualmente è quella della rinuncia a tutta una serie di belle relazioni umane e gioie pastorali, la tortura di non sapersi esprimere in questa lingua. La sensazione che questa “balbuzie” non dipenda solo dalle difficoltà linguistiche, ma che resterà una componente permanente della mia missione, per la situazione potenzialmente ostile che si delinea nel futuro del paese. Una lotta quindi contro nemici “invisibili” ma capaci di bloccare realmente la capacità di donarsi alla missione, di accettarla per quello che è, per adattarsi alla via della croce percorsa da Gesù, sposata da Francesco e da lui indicata ai suoi frati come unica strada di salvezza per sé e per chi ci guarda percorrerla» (M. P.). Infatti, ci avverte l’Ammonizione V, «se anche tu fossi il più bello e il più ricco di tutti, e se tu operassi cose mirabili, come scacciare i demoni, tutte queste cose ti sono di ostacolo e non sono di tua pertinenza, ed in esse non ti puoi gloriare per niente; ma in questo possiamo gloriarci, nelle nostre infermità e nel portare sulle spalle ogni giorno la santa croce del Signore nostro Gesù Cristo» (FF 154).