La vergogna del silenzio

Se il martirio può avere esiti positivi, ciò che scandalizza è l’indifferenza che suscita 

di Stefania Monti
clarissa cappuccina, biblista 

Classificazione della sofferenza

C’è sofferenza e sofferenza e c’è persecuzione e persecuzione. Esiste infatti una sofferenza legata all’ordine creaturale, come la malattia, il dolore e la morte.

Questo genere di sofferenza, nella logica evangelica del chicco di grano, è strettamente legata alla vita, e quindi, volere o no, al mistero della pasqua. Esiste però anche una sofferenza che potremmo dire “indotta” e spesso futile, legata all’insuccesso o comunque a motivi, se non irrilevanti, quasi.
Ugualmente c’è una persecuzione legata alla gelosia e all’invidia altrui per motivi che potremmo definire “mondani”: la carriera, la bellezza, il successo, come il mobbing, per esempio. Così come c’è una persecuzione dovuta a ragioni alte, politiche o religiose che siano. Tutto dipende, come spesso accade, dalle motivazioni.
È proprio da qui che parte la nostra riflessione perché 1Pt 4,16 ci dà un’indicazione specifica e preziosa: «Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; per questo nome, anzi, dia gloria a Dio», “come cristiano”, ovvero in quanto cristiano, perché cristiano. Questa precisazione è tanto più speciale, perché il termine “cristiano” compare solo tre volte negli scritti apostolici.
La prima in At 5,41, quando si dice che da quel momento e per la prima volta i discepoli furono chiamati “cristiani”; è pensabile infatti che prima di allora si chiamassero nosrìm, “nazareni”, come ancora adesso sono detti in ebraico moderno.
La seconda (At 28,22) ha una sfumatura ironica marcata. La terza è questa. “In quanto” (ôs) precisa proprio la motivazione e compare in un contesto in cui di persecuzione si parla diffusamente.
Sappiamo che la prima lettera di Pietro è una serie di frammenti di catechesi battesimali che il redattore ha composto in testo unitario. Questo spiega come vi siano temi e motivi ricorrenti costantemente ripresi, perché scelti, con coerenza, nonostante alcune discrepanze. Il linguaggio è raffinato e usa termini a volte cultuali, e spesso rari, come è il caso del nostro “cristiano”; ricorre spesso però il riferimento alla sofferenza, alla persecuzione e alla consolazione, come abbiamo già notato.

In riferimento a Cristo

Costante della sofferenza è il riferimento a Cristo: anzi il capitolo 4 della prima lettera di Pietro innesca un rapporto diretto tra le sofferenze corporee di Cristo e la necessità che i discepoli abbandonino una vita disordinata, come una preparazione alla venuta ultima del Signore e alla persecuzione che le è connessa. Per usare una denominazione tradizionale nell’ebraismo, essa non è che le doglie che ne preparano la venuta. Ha quindi una sua necessità implicita o, se vogliamo, è una chiave di lettura della storia. Le sofferenze dei cristiani confermano che la fine di tutte le cose è vicina (1Pt 4,7) e non bisogna meravigliarsene (4,12).
Non è questa però l’unica lettura della persecuzione che troviamo negli scritti apostolici. Gli Atti, per esempio, ci fanno capire che essa è la causa della diaspora apostolica, dopo la morte di Stefano (At 8,4) e quindi il motore della evangelizzazione. Questo tipo di interpretazione si trova già nel secondo Isaia, che leggeva in chiave provvidenziale e consolatoria il dramma dell’esilio. Se Israele non fosse stato disperso come avrebbero potuto gli altri popoli conoscere la rivelazione di Dio?
Lo stesso fenomeno accade a Paolo, apostolo: fallito il tentativo di evangelizzare i suoi correligionari, tra una persecuzione e l’altra, decide di passare in Macedonia e poi in Grecia: è un ulteriore passo verso Roma e quel martirio, che, mi pare, è la sua forma più alta di annuncio dell’evangelo.
Secondo la lettera agli Ebrei (12,7), invece, la persecuzione ha una motivazione pedagogica austera, e forse per noi più difficile da accettare, legata alla paternità di Dio. Secondo la nostra mentalità infatti è più facile concepire una motivazione dovuta a una fedele sequela, quali che ne siano le conseguenze, che non a una correzione paterna. Nella mentalità corrente un padre protegge sempre o quasi, ma certamente non mette direttamente alla prova per indurre alla coerenza e alla fedeltà. Evidentemente i criteri pedagogici sono molto cambiati. D’altra parte la madre dei sette fratelli (2Mac 7) non solo non li protegge, ma, con un istinto materno molto diverso da quello corrente, incoraggia i propri figli al martirio del quale, del resto, il secondo libro dei Maccabei fornisce esempi e motivazioni (2Mac 6,12ss). Benché il redattore raccomandi i lettori di non turbarsi per il divampare della persecuzione, si è colpiti dalla giustificazione che egli ne dà. Parla infatti anch’egli di correzione del popolo e quindi delle sofferenze che ne vengono come segno di benevolenza. Si spinge quindi più in là del dettato degli scritti apostolici.

La costante della persecuzione

Per tornare al nostro versetto però ci sono altri elementi della persecuzione da considerare.
Eravamo già introdotti al fatto che sofferenza e morte siano un motivo per dare gloria a Dio (cf. Gv 11,4), e se una morte, per così dire, naturale, può dare gloria a Dio in quanto bene o male fa riferimento alla pasqua, tanto più una sofferenza e una morte legate direttamente alla testimonianza della pasqua.
Resta da capire il riferimento alla vergogna. Ci si può vergognare delle proprie idee, della propria fede, del proprio modo di vivere in quanto cristiani? Evidentemente il testo pensa ad un altro tipo di vergogna che non si può che ipotizzare, dato che i commentatori in genere sorvolano su questo versetto, dandone per scontato il senso. Pare a me che si possa alludere alle modalità della tortura e della morte. Si sa che i crocifissi erano nudi e non ricevevano sepoltura, il che per un giudeocristiano come per un etnico cristiano erano vere e proprie onte.
Cambia allora anche il senso dellʼonore per un cristiano. Il suo buon nome non sarà più nel ricevere il dovuto rispetto secondo la tradizione in cui è cresciuto, ma nel conformarsi del tutto a Cristo che, per primo, ha accettato lʼignominia della sua morte.
Lungo i secoli della storia dei cristiani la persecuzione è stata una costante e lo è tuttora. Ciò che colpisce è semmai il silenzio con il quale oggi viene accolta. A parte poche sporadiche voci, i grandi numeri dei perseguitati attutiscono il colpo. Sono persone anonime, poco più che numeri appunto, ma non hanno nomi e volto, non ci sono tra loro personalità di spicco per cui si muovano movimenti umanitari o organizzazioni internazionali, se non in qualche raro caso. Ciò di cui ci dovremmo vergognare perciò non è il fatto che la persecuzione continui, dato che pare un esito coerente della sequela, ma il nostro silenzio.