Un seme di pace e una carezza

di Dino Dozzi
Direttore di MC

Il 9 febbraio la basilica di San Pietro è stata invasa da un rumoroso, variegato, un po’ rustico e disordinato gruppo di frati che attirava l’attenzione dei numerosi pellegrini già in file interminabili per entrare a visitare le spoglie di san Leopoldo Mandic e di san Pio da Pietrelcina eccezionalmente esposte proprio davanti all’altare della confessione. Non era una trovata da martedì grasso: era proprio il Giubileo dei frati minori cappuccini. Circa millequattrocento, da tutto il mondo: uno diverso dall’altro, barbe lunghe e corte, calvi e capelloni, con sciarpe e giacconi per via del freddo delle sette del mattino, ma tutti sorridenti sia per l’opportunità di incontrarsi e salutarsi, sia per la gioia di poter celebrare con il Papa in San Pietro.
Il Ministro generale l’ha ricordato al termine della messa: «È proprio vero che a chi bussa verrà aperto. Abbiamo chiesto al santo padre che celebrasse una messa con noi e per noi frati cappuccini nell’anno santo, in occasione della presenza da lui voluta in San Pietro di nostri due confratelli santi confessori, testimoni della misericordia di Dio, e lui ce lo ha concesso». Ha poi ricordato la fiumana di fedeli che sale ininterrotta a toccare le urne dei due santi: espressione di religiosità popolare della gente semplice, dei poveri che vedono in san Pio il segno del perdono di Dio e della sofferenza accolta e portata al crocifisso. Come pure la provvidenziale coincidenza della presenza di san Leopoldo in basilica con l’annuncio dell’incontro, atteso da un millennio, tra il papa di Roma e il patriarca ortodosso di Mosca a Cuba l’11 febbraio: che sia da collegare con l’offerta della sua vita che san Leopoldo fece per la riunificazione dei cristiani?
Veniva da sorridere in basilica nel vedere il tentativo del cerimoniere pontificio di mettere in ordine tutti quei frati cappuccini: cercava di dividere i frati sacerdoti in camice bianco dai frati laici in abito marron. Non sapeva il povero che i cappuccini ci tengono troppo a questa santa confusione tra fratelli sacerdoti e fratelli laici: si è dovuto rassegnare e prendere atto di una insopprimibile secolare tradizione di disordine fraterno.
E finalmente è entrato papa Francesco. Ed è stata una messa semplice, ordinaria, senza alcuna introduzione o conclusione particolare. La stessa debolezza della voce del celebrante faceva risaltare la forza della semplicità liturgica. All’omelia, il Papa dalla sede si è portato con passo quasi barcollante all’ambone, più vicino a noi frati e ci ha parlato a braccio, “come fratello”, ha detto, «e in voi vorrei parlare a tutti i confessori, specialmente in quest’anno della misericordia: il confessionale è per perdonare. E se proprio non fosse possibile dare l’assoluzione, per favore, non bastonate! La persona che viene, viene a cercare conforto, perdono, pace: che trovi un padre che lo abbracci e gli dica: “Dio ti vuole bene!”».
Ci ha ricordato che «non c’è solo il linguaggio delle parole, ma anche quello dei gesti; se una persona si avvicina al confessionale, è perché vuole cambiare: lo dice con il gesto di avvicinarsi, non è necessario fare tante domande. Ma a volte non può cambiare perché condizionata dalla sua psicologia, dalla sua vita, dalla sua situazione: ad impossibilia nemo tenetur!». Parole importanti, che mettono tra parentesi una casistica di duemila anni e che riportano direttamente a Gesù.
Papa Francesco ci ha ricordato che la nostra tradizione di cappuccini è una tradizione di perdono, di dare perdono. E questo deriva dal sentirsi peccatori, come il padre Cristoforo dei “Promessi sposi”: solo chi prega chiedendo perdono sa poi perdonare. «Come questi due vostri santi confratelli, voi avete il carisma dei confessori. Siate grandi perdonatori, perché chi non sa perdonare diventa come quei dottori del Vangelo, grandi condannatori, grandi accusatori! Sapete chi è l’accusatore nella Bibbia? Il diavolo! Il perdono è un seme, è una carezza di Dio. Abbiate fiducia nel perdono di Dio!».
Dopo la messa, siamo stati invitati a fare colazione nell’atrio della sala Paolo VI, e poi ci siamo messi in fila in una lunga processione dietro il Ministro generale che portava la croce per entrare dalla porta santa, cantando misericordias Domini in aeternum cantabo passando tutti di fronte alle due urne di san Leopoldo e di san Pio. Il tempo che restava prima del rientro è stato riservato alla preghiera personale e alla meditazione sulla forza della misericordia e sul perdono come seme.
Un seme da spargere nel confessionale, nelle famiglie e nelle persone che incontriamo sulla nostra strada, con le parole, con l’esempio e con gli scritti. Un seme che crescerà portando frutti di pace e di bene. Grazie, papa Francesco!