Carissimi tutti della commissione provinciale per l’evangelizzazione, avevo chiesto a qualcuno di voi di descrivere per questa rubrica di MC l’ambito di evangelizzazione a voi affidato. Ma le feste natalizie e gli impegni di apostolato non hanno permesso la puntualità richiesta. Per cui, per questa volta, vi scriverò io una lettera.
Vi immagino durante le vostre riunioni, tutti attorno ad un tavolo, a ragionare sul significato di evangelizzazione, su come la buona notizia possa essere raccontata in questa nostra Emilia-Romagna, in cui la gente, non so se dire per fortuna, non insulta più il prete o il frate quando passa per strada. Un po’ perché non lo riconosce nell’abito borghese che indossa, un po’ perché non gliene importa più granché. A parte pagare l’ICI o l’IMU come tutti, per il resto che facciano quel che vogliono, tanto la vita è altrove.

Da quella prossimità di altrove, in cui mi trovo a vivere, mi sono venuti in mente alcuni luoghi dell’evangelizzazione che non sono tra quelli elencati nella Tavola delle fraternità dove si parla della vostra commissione.

Quei luoghi, in cui molti, moltissimi passano ogni giorno e si incontrano un po’ per scelta, o per dovere, o perché la vita è andata così loro malgrado e allora si cerca di sfangarla come si può. È lì che, al mattino presto o alla sera tardi, mi venite in mente, ricordando con allegria, e con l’affetto che mi è permesso dalla lunga consuetudine con il vostro mondo, quel vostro stare tra la gente nelle piazze di Reggio Emilia nelle giornate dei festival francescani degli ultimi tre anni. Semplicemente stare, nel flusso di un’umanità che cerca altro dai modelli proposti dalla pubblicità imperante, altro dalla psicologia a basso costo di santoni e maghi, che aspetta qualcuno capace di essere amorevolmente intransigente e duro quando occorre. Qualcuno capace di stare nel mondo come Francesco, nostro padre comune.

Vorrei raccontarvi di quei posti, pur sapendo che forse non è roba del tutto nuova, ma sono sicura che capirete. Per condividere con voi la fatica quotidiana di essere nel mondo senza essere del mondo, nella consapevolezza che questo è il solo mondo in cui ci è dato vivere e allora è meglio farlo come Dio, e Francesco, comanda. Fatene l’uso che ritenete opportuno.

Lucia Lafratta

Nuove mete di carità

Luoghi dove il carisma francescano può sperimentare la verità di un incontro

Stazioni

Salgo sul treno delle 17,36 e, tutto sommato, non è così male la vita del pendolare, può essere un’occasione per guardare quell’umanità che vi lascia passare invisibili. Ragazzi vanno e vengono dalla provincia alle città universitarie, in quattro hanno conquistato fortunosamente quattro posti vicini, possono divertirsi con i giochi del cellulare di uno di loro, nel treno della sera che li riporta verso la Romagna. Trovo posto in piedi davanti a loro, nessuno si preoccupa di chiedermi se voglio sedermi. Penso positivo: nonostante tutto, non mi vedono vecchia e bisognosa. Ancona in che regione è? Abruzzo. No, non l’Abruzzo, è nella regione dove c’è stato il terremoto. Sì, l’Aquila è in Abruzzo, allora Ancona no, forse è in Romagna. No, no. Resisto alla tentazione di rispondere. Il gioco continua: maroso. Cosa significa maroso? Niente, nessuno lo sa, nessuno azzarda. Resisto ancora, a fatica.
«L’incontro tra credenti e non credenti avviene quando si lasciano alle spalle apologetiche feroci e dissacrazioni devastanti e si toglie via la coltre grigia della superficialità e dell’indifferenza, che seppellisce l’anelito profondo alla ricerca, e si rivelano, invece, le ragioni profonde della speranza del credente e dell’attesa dell’agnostico» ha detto il cardinale Gianfranco Ravasi un anno fa, nel dare il via a Bologna, nell’aula magna dell’Alma Mater Studiorum da cui vengono quei giovani, alla nuova struttura del Pontificio Consiglio della Cultura per favorire l’incontro e il dialogo tra credenti e non credenti, il Cortile dei Gentili. Così caro al direttore di questa rivista, spesso oggetto delle conversazioni, e discussioni, tra noi della Redazione di MC. Ma quelli che manco sanno dov’è Ancona, benché iscritti all’università e abitanti nella Romagna che confina con le Marche, che ne possono sapere dei Gentili che, tutt’al più, potranno essere persone educate, e che ci stanno a fare in un cortile? Mentre mi mordo la lingua e taccio, penso che, se al posto mio ci fosse stato un frate, uno di voi, giovane, con l’abito e, come molti di voi fanno, con i sandali ai piedi e la bisaccia a tracolla, allora sì che avrebbe potuto dire «Marche!» e dalle Marche, sorridendo, andare in Umbria e lì arrivare ad Assisi. Assisi è Francesco, anche per chi non sa di geografia, e di cortile conosce quello del suo condominio, occasione di litigi tra vicini. Non mi dispiace che vi troviate a fare progetti per raccontare di nuovo e con nuove parole e gesti cosa c’entra Gesù con questa vita di corsa. Mi piacerebbe che nei progetti entrassero i treni dei pendolari, le stazioni dei treni e anche quelle degli autobus, più tristi, più spente, più dolenti di quelle ferroviarie. Forse parlo a voi per redarguire me stessa, per aver tirato diritto quella mattina che l’ho visto, ore 7,45, seduto per terra, schiena al muro, gambe distese, vecchio, sporco, malconcio, mangiare un pezzo di pane, riparato in una nicchia vicino all’ascensore che porta dal sottopassaggio ai binari. Pochi secondi, lo vedo, mi fermo, no, non mi fermo, corro alla fermata del bus, prima arrivo in ufficio, prima esco. Alle 7,45 che fretta potevo avere? Riconosco di aver avuto paura, magari mi insulta, che vuoi da me? O magari no, magari aspettava un sorriso e, perché no?, anche qualche soldo per un altro pezzo di pane. Va beh, oramai è andata, ce ne saranno altri di barboni e allora sarò più pronta.

Centri commerciali

E poi mi piacerebbe vedervi nei centri commerciali. I centri storici delle città, soprattutto delle cittadine di provincia, si svuotano, i commercianti s’inventano di tutto per attrarre clienti, ma l’impresa è improba, con i centri commerciali non c’è storia. Lì ci vanno i ragazzini con i pantaloni col cavallo alle ginocchia, anche i bambini, per incontrarsi, mangiare cibo spazzatura, fare acquisti, chiamarsi da un ingresso all’altro col cellulare. Ci vanno i vecchi, che trovano caldo d’inverno e fresco d’estate, ammaliati dalle giovani dell’est. Ci vanno gli immigrati trasportati dal sogno di far parte di questo mondo in cui, se hai soldi, anche pochi, puoi allungare la mano, afferrare il desiderio fatto biscotto, carta igienica, surgelato, e metterlo nel carrello insieme ai bambini, nati qui ma ancora stranieri a loro insaputa, loro malgrado. Mi piacerebbe incontrarvi lì, impegnati, con la forza di Francesco e della gioventù, a far uscire dai loro cuori, un po’ storditi dal rumore e dalle luci, i loro sogni. Ognuno ha un sogno più grande dell’ultimo iPad e del carrello pieno di cibi e oggetti, solo che la voce di chi vende sogni piccoli e, tutto sommato, a buon mercato è più potente e soprattutto onnipresente. Perché in quei centri commerciali troverete un’umanità altra da quella che frequenta le vostre chiese e i vostri conventi, troppo ben nata per gettarsi nella bolgia degli acquisti prenatalizi, delle svendite e in quelli del sabato che precede il dì di festa, troppo vegetariana e slow food per acquistare pere argentine e kiwi neozelandesi, adatta a frequentare il cortile dei gentili e quello della fattoria fuori porta a chilometri zero o quasi.

Stanza dei poveri

Questa è la tradizione: in ogni convento c’è, vicino alla portineria, la stanza dei poveri, dove viene accolto, scaldato e nutrito chi bussa alla porta e chiede aiuto. Quando passo lì davanti, mi sorridono ancora gli occhi acuti e ironici di fra Gioacchino che entra ed esce per dar da mangiare all’ultimo arrivato. E mi accolgono le sue parole sapienti, capaci, con poche immagini terragne, di scaldare, insieme a un buon bicchiere di rosso, corpo e anima.
Lo so che non è semplice, almeno si pensa che non lo sia più, “impegnare” un frate per l’accoglienza. Ma, forse, basterebbe poco: quanto ci vuole a mangiare un piatto di minestra e un pezzo di pane e formaggio? Pochi minuti lì in quella stanza, seduti accanto, un po’ di cibo e poche parole per riempire il vuoto dello stomaco e anche quello del cuore. Un segno per dire che c’è ancora chi ha tempo da perdere con chi ha perduto quasi tutto e altro non ha se non il tempo. Un modo per guadagnare entrambi, chi nutre e chi viene nutrito, scambiandosi fraternamente i ruoli. Perché anche il povero lo sa che il bene più prezioso per noi (e in questo noi ci siete anche voi) ricchi è il tempo e, come ogni essere vivente, si nutre, oltre che di carboidrati e proteine, anche, e forse nella stessa misura, del calore di una stretta di mano e di un sorriso non stiracchiato. Fra Gioacchino non aveva studiato, almeno non sui libri seduto sui banchi, ma sapeva enciclopedie e vocabolari di umanità.
Lo so che anche questo è un sistema per scaricare su di voi il peso della nostra indifferenza e del nostro affannarci da mane a sera per mille attività ritenute utili e, anzi, indispensabili. Lo so che, a volte, ci siete utili per demandare a voi il compito della carità cristiana: blindate le nostre case con porte di
sicurezza, chiuse anche ai vicini pressoché sconosciuti, aperte le vostre stanze dei poveri, cibo ve ne diamo, ne abbiamo troppo, ma i vestiti non ce li vogliamo sporcare con chi non si lava e puzza.

Un ultimo desiderio

Attraversano i corridoi dei vostri conventi ogni giorno molte persone, le più disparate - francescani secolari, devoti di san Pio, agnostici, scout, atei, analfabeti di ritorno, acculturati, pensionati attivissimi, giovani indecisi - umanità varia che nelle vostre case e nelle chiese trova almeno un motivo per uscire e mettersi per strada, col freddo e col caldo: potrebbe essere interessante, utile, divertente, sorprendente chiamarli attorno al tavolo per raccontare e lasciarsi raccontare cos’è questa bella notizia che tutti ci muove.