In tutte le sedi in cui si affrontano le questioni dell’immigrazione in chiave sociologica, politica o economica, quando si propone di interpretarle anche in chiave teologica, si rischia di diventare velocemente impopolari: come se le preoccupazioni del quotidiano non potessero trovare anche un risvolto nella dimensione interiore, nella profondità dell’essere, nel senso dell’esistenza.
È quanto pensa il teologo Claudio Monge, in prima linea in tutti i sensi su questo tema. Noi non abbiamo paura dell’impopolarità e gli cediamo volentieri la parola.

Barbara Bonfiglioli

Creatura in uno spazio di dono

Per il riconoscimento di una dignità umana universale

di Claudio Monge
responsabile del Centro culturale dei Padri domenicani di Istanbul 

Niente di straordinario

Nelle società contemporanee si definisce il problema delle migrazioni come qualcosa di straordinario, eppure, se si pensa alla storia dell’essere umano, muoversi è sempre stata una cosa normale come parlare, cucinare, costruire.

Nel XXI secolo non sembra che questo fenomeno sia destinato a scomparire, anzi! Ma i mass media sembrano interessati più al fatto in sé - la migrazione che si moltiplica nel mondo - che al modo e alle condizioni all’interno delle quali essa si produce o alle condizioni di vita che l’hanno determinata. Di colpo, le storie di migliaia di persone si perdono nell’amalgama, spesso superficiale, di una visione stereotipata che riduce l’altro da noi ad un mero dato statistico. E quando degli esseri umani diventano un semplice dato statistico, hanno già perduto il loro volto e, quindi, la loro umanità.

Un’interminabile fiumana di gente intenta ad attraversare, a piedi, la frontiera siriana per entrare in Iraq. È una delle foto emblematiche del dramma contemporaneo dei rifugiati: oltre due milioni hanno già lasciato la Siria, più del 50% verso Giordania e non meno di 150.000 nei campi profughi allestiti all’interno della frontiera sudorientale turca. Ma secondo i dati ufficiali forniti dall’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, già prima dell’acuirsi della crisi siriana, sette milioni di persone avevano lasciato la loro patria nel solo 2012 (senza contare altri 6 milioni e mezzo di persone in esodo permanente all’interno dei confini stessi dei loro paesi d’origine). Sono cifre da “esodo biblico” con la differenza che il Popolo eletto, di cui si narra nel secondo libro della Bibbia, non contava che poche migliaia di persone.
Il problema è che ci si può abituare facilmente anche alle statistiche più agghiaccianti, cedendo ad un sentimento misto tra indifferenza e paura. Papa Francesco, che si sta confermando vera sentinella al capezzale di un’umanità sofferente, ha denunciato a più riprese questo rischio. Ancora recentemente, rendendo visita al Centro Astalli per il servizio ai rifugiati dei Gesuiti a Roma, dopo aver definito in modo non convenzionale la Chiesa come «comunità fondata per servire la carne di Cristo che continua la sua incarnazione macchiata dal sangue», indirizzandosi in modo particolare alle persone consacrate, ha puntato il dito sulla realtà dei molti conventi vuoti che dovrebbero profeticamente essere messi a disposizione di chi cerca semplicemente il riparo di un tetto. Sarebbe decisamente riduttivo limitare questo intervento ad una semplice esortazione morale.

 Senza barriere

Del resto la sfida dell’accoglienza non è riconducibile solo all’ambito del comportamento e della morale, come non può essere esaustivamente analizzata in una prospettiva semplicemente politica o economica: è curioso il contrasto tra la pretesa di una circolazione senza barriere delle merci e del denaro sul pianeta e i reiterati tentativi di impedire una libera circolazione delle persone. L’ospitalità chiama in causa, prima di tutto, il nostro approccio antropologico. La condizione permanente di “esodo esistenziale”, provocata dalla precarietà del vivere in tempi di crisi, suscita una domanda pressante: come conservare la speranza in tempi difficili ed avversi? Sicuramente, questa speranza non può esistere se non è prima di tutto sostenuta dal riconoscimento di una dignità umana fondamentale e intangibile, propria indistintamente di ogni creatura umana e che non è concessione di nessuna autorità o legge, ma che è inscritta nello stesso essere di uomo e di donna, di ogni persona nella sua concretezza storica.
Non possiamo dimenticare che nella carta universale si fa riferimento ai diritti dell’uomo e non a quelli dei cittadini italiani, francesi, tedeschi o di qualsiasi altro paese concreto! Non c’è dunque alternativa all’accoglienza ma, al più, c’è il dovere di un serio ripensamento delle politiche globali atte ad intervenire alla radice dell’emergenza profughi e delle sue cause. In attesa di questa svolta politica non più rinviabile, auspicare una maggior integrazione contro la paura che genera esclusione, non è banale appello buonista ma consapevolezza che è in gioco il futuro stesso di quella che chiamiamo la “civiltà occidentale”. Su questo tema si innesta una riflessione che diventa anche spirituale e propriamente teologica. Dobbiamo riconoscere che la fragilità del vivere ci obbliga a prendere più seriamente in conto quella “stranierità” ontologica che ci caratterizza come uomini e donne in cerca di relazione e senza la quale non sarebbe possibile una pratica credibile dell’ospitalità.
Questa “stranierità” si declina, prima di tutto, nella diversità irriducibile nei confronti “dell’altro da me” ma anche rispetto a quell’“altro me” che, talvolta, fatichiamo ad accettare per poterlo offrire in dono a chi incontriamo. Inoltre, lo stesso esistere non è un diritto ma un debito. Il credente si riconosce debitore verso Dio oltre che verso la storia e il lavoro di tanti; egli sa di esistere “in alleanza”, ma questo solo quando resiste alla tentazione del ripiegamento identitario, per misurare fino in fondo la dialettica tra appartenenza e differenza, tra solidarietà e diversità, tra coesistenza civile e alterità.
In una prospettiva interreligiosa, al cuore delle grandi religioni abramitiche, questa interiorizzazione della riflessione sull’ospitalità conduce a scorgere il cuore stesso di Dio. Più precisamente, un Dio che non solo ascolta il grido del suo popolo in terra straniera, ma un Dio che si fa “esule”, straniero in questo mondo - nel Salmo 119,19: «Io sono straniero sulla terra…» è Dio che parla di se stesso! - per camminare con lui, per essere compagno di tutti gli stranieri ed esuli della terra. In questa prospettiva teologica, l’uomo si scopre come creatura ospitata dentro uno spazio di dono: dove l’errare significa nuovo rapporto con il vero, dove il “possesso” viene soppiantato dalla “gratuità”, dove il senso dell’esserci non è più la cura dell’io ma cura o responsabilità dell’altro.
Le grandi religioni abramitiche non conoscono la dicotomia tra dimensione orizzontale e verticale della vita perché in esse ciò che appartiene alla storia è fondamentale per la fede e, d’altro canto, la relazione con Dio è percepita come essenziale per la corretta impostazione delle relazioni umane. Certo, non si può negare neppure il fatto che la possibilità di una società senza stranieri, e cioè senza «estranei», è stata sognata anche all’orizzonte della religione e della morale, oltre che ripresentarsi nuovamente oggi in un contesto di integrazione economica e politica planetarie.

Dell’autore segnaliamo:

Stranieri con Dio
Edizioni Terra Santa, Milano 2013, pp. 304