Entriamo in una sorta di ambulatorio odontoiatrico in terra d’Etiopia, dove alcuni medici hanno prestato volontariamente la loro opera per sanare carie, estrarre denti irrecuperabili, ripristinare “sorrisi” a tanti pazienti occasionali. E poi, all’avvicinarsi dell’estate, apriamo il ventaglio dei tanti campi di lavoro nelle missioni e per le missioni, vere palestre di misericordia in questo anno santo.

Saverio Orselli

Storie di denti e cavadenti

Il viaggio in Etiopia di un’équipe medica di dentisti volontari 

di Nazzareno Zanni
della Redazione di MC

 Un’idea generosa

Gli inizi della storia di questo viaggio in Etiopia nessuno li avrebbe immaginati. Lucio Vallerini, assiduo frequentatore della missione etiopica del Kambatta e Wolayta prima, e del Dawro Konta poi, una mattina si risvegliò con un forte mal di denti.

Ci volle poco per il suo dentista a rimettere le cose a posto. A Lucio, però, quel mal di denti e l’ambulatorio dentistico lo avevano come illuminato: perché non chiedere al medico qualche ferro del mestiere, anche smesso, da inviare nella missione del Dawro Konta in Etiopia? Il medico si dichiarò interessato e volle sapere di più. Lucio, dalla parlantina che va come un treno in corsa, che però sa sempre arrivare in stazione, gli descrisse l’opera dei missionari in terra africana, e come altri specialisti, nessun dentista però, si erano recati laggiù come volontari. Il medico fu di poche parole, ma di quelle pesanti: si rese disponibile a donare un ambulatorio alla missione, completo della sedia apposita, dei ferri necessari e dei farmaci anestetici. Lucio rivelò al dentista le condizioni in cui si lavorava in Etiopia: una sedia qualunque per i pazienti, contro i quali a volte era anche necessario appoggiare un ginocchio per estrarre un dente. Acqua poca e non sempre limpida, luce elettrica qualche ora al giorno quando disponibile, ferri consistenti in vecchie pinze o tenaglie arrugginite. Un ambulatorio? Non proprio: sarebbero stati sufficienti solo alcuni decenti arnesi del mestiere, che, in mano alle suore missionarie infermiere, avrebbero fatto miracoli.

Trascorsero alcuni giorni, e furono giorni per pensare. Il dentista contattò Lucio, rendendosi disposto ad andare in Etiopia lui stesso con una sua assistente. Avrebbe portato i ferri appositi e quanto occorreva per fare una tournée tra i denti degli etiopici. Lucio non stava più nella pelle e organizzò lui stesso il viaggio per non lasciarsi sfuggire un’occasione così provvidenziale. La partenza avvenne dall’aeroporto Marconi di Bologna nella notte tra il 28 e il 29 ottobre. Erano in quattro: il dott. Massimo Greischberger, l’igienista Paola Lenzi, Lucio e sua moglie Annalisa. Allo sbarco ad Addis Abeba, dieci ore dopo, li aspettava una Toyota con padre Renzo Mancini per un interminabile viaggio di trasferimento di ben quindici ore per raggiungere a notte fonda Gassa Chare, a 2250 m di altezza, dove li attendevano quattro frati etiopici. Il Dawro Konta, regione a sud-ovest dalla capitale, posta sull’altipiano etiopico, montuosa e a volte impervia, con aria fine, vento fresco, a volte freddo, e con acquazzoni improvvisi, era già immerso nel buio e nel silenzio africano.

 Tempi serrati

Alla missione non ci fu tempo sufficiente per smaltire tutto il sonno accumulato e, alle prime luci dell’alba, i viaggiatori, dopo aver potuto ammirare solo per un istante lo stupendo panorama fatto di montagne e di vallate verdi, con mandrie di mucche e pecore al pascolo, si misero sulla strada per Duga, l’eremo esclusivo di padre Raffaello Del Debole, situato più in basso, non lontano dalla stretta gola del fiume Omo, che raggiunsero a metà della giornata di venerdì 30 ottobre. A un chilometro dalla missione vi era l’ambulatorio della missione, fondato da Raffaello e dall’ancella dei poveri Carla Ferrari, che ha dedicato la sua vita per l’Etiopia. Così affermava padre Raffaello in un’intervista come prevedendo il futuro: «Si tratta più di un pronto soccorso che di una vera e propria clinica, che sarebbe bene potenziare, proprio per offrire un servizio più completo. Pensa anche solo al dolore di denti e non poter fare altro che sopportarlo sperando che passi: se fosse presente qualcuno in grado di intervenire, sarebbe di grande aiuto per la gente!». Qui l’équipe medica italiana trovò un infermiere locale, Tamrat, svelto a imparare ogni tecnica odontoiatrica, un addetto alla piccola farmacia e un autista per le evenienze più urgenti, e si mise subito al lavoro. Non vi era corrente elettrica e ogni cosa doveva essere fatto alla luce di una torcia frontale e la sterilizzazione dei ferri chirurgici avveniva con una polvere miracolosa sciolta in acqua nel lavandino del bagno. Il dott. Massimo, coadiuvato dall’igienista Paola e da Tamrat, sperimentò l’infinita pazienza africana degli abitanti locali, che già li attendevano dalle prime luci dell’alba, perché gli etiopici non conoscono che cosa sia la fretta e affermano che il tempo è comunque gratuito. In precedenza sia Raffaello che Renzo avevano preparato l’ambiente informando la popolazione dell’arrivo di un dentista italiano, il primo dentista in assoluto a memoria d’uomo a recarsi in quella regione. Nessuno si sarebbe immaginato di trovarsi di fronte a una folla così numerosa; altra ne giungerà ancora più numerosa durante la giornata e nei giorni successivi. Alcuni arrivavano da molto lontano dopo ore e ore di cammino a piedi. Il lavoro iniziava alle 8 del mattino per terminare alle 18-19 della sera, quando ormai era buio, e la tanta gente accorsa doveva fare ritorno a casa o recarsi presso conoscenti per trascorrere la notte nel tucul, la abitazione a pianta circolare tipiche dell’Etiopia, con pareti di cicca (fango) mista a paglia e bastoni - una sorta di “cemento armato” - e con il tetto conico di paglia o in corcorò (lamiera). Padre Renzo, quando si intravedeva il sole calare all’orizzonte, impugnava un sottile ramo flessibile per convincere, con la “minaccia” di usarlo, i pazienti rimasti a ritornare sui propri passi. Nessuno si ribellava, perché Renzo era “abba Renzo”, e tutti lo conoscevano. L’interminabile giornata lavorativa conosceva una breve interruzione solo verso mezzogiorno per un veloce pranzo fatto di piadina romagnola con prosciutto, salame o formaggio portati dall’Italia da Lucio, perché Raffaello non possedeva risorse alimentari sufficienti e decorose per palati diversi dal suo. Il medico e la sua assistente forse mai avrebbero immaginato di trovarsi di fronte a un missionario così povero, che si era fatto africano tra gli africani. I pazienti erano straordinari - oltre ottanta al giorno - e aspettavano il loro turno senza mai lamentarsi. E così si andò avanti per tutto il venerdì e il sabato. Nella giornata di domenica gli abitanti preferirono partecipare alla messa della comunità, sicché medico e assistente godettero un attimo di respiro facendo momentaneamente ritorno a Gassa Chare fino a sera, anch’essi partecipando alla festosa messa della missione con canti e balli, e facendo pranzo a base di enjera (una specie di piadina spugnosa e fermentata, fatta con il teff, un cerale locale), intinta nella pentola della carne in comune, con tutti gli inebrianti profumi e sapori dell’Etiopia. Ma il lunedì la musica ricominciò come prima e più di prima, e quando dopo il tramonto l’ambulatorio chiuse i battenti, ecco l’arrivo di due frati etiopici, che non parlavano una sillaba della lingua italiana, eccetto qualche “ahi”, comune a tutti gli idiomi, e che chiedevano con gesti più che eloquenti l’asportazione di alcuni denti del tutto malandati e dolenti. Quella sera si fece dello straordinario, ma quando i due frati se ne ritornarono, erano felici come nessun altro, e il dottore si era reso conto come in quel minuscolo pezzo di terra africana l’estrazione di denti era occasione di gioia, anziché di paura come in Italia.

 Denti da curare dappertutto

Il martedì seguente tutta l’équipe medica si rimise in viaggio, portandosi a Gassa Chare presso la “clinica” della missione delle Suore francescane missionarie di Cristo, che, oltre ai malati, curano anche le vacche. E anche qui, per due giorni, una fila interminabile di pazienti si sottopose alle loro cure. Tutto finito? Tutt’altro! Vi era anche il nuovo e grande ospedale locale statale di Gassa Chare da soddisfare, un ospedale costruito in tempo di promesse elettorali atto a servire una vasta regione. Non era stato però previsto un ambulatorio dentistico e il personale era del tutto inadeguato: solo due medici generici, qualche infermiere e la manovalanza per le pulizie. L’acqua mancava e così pure l’elettricità, sicché giovedì 5, venerdì 6 e sabato 7 novembre sono stati trascorsi in un lavoro non diversamente disagiato di quello dei giorni precedenti. Finalmente la sera del sabato i ferri furono riposti e la sedia dei pazienti rimase senza clienti.
La domenica, dopo la colazione del mattino, e quando, anche dai villaggi più lontani, già arrivava gente per la grande messa della comunità, la comitiva è risalita sulla Toyota di padre Renzo, diretta alla grande diga Gibe III sul fiume Omo, incastonata tra le montagne e alta 246 metri. Qui è stata celebrata la messa per gli operai dell’impresa edile Salini, che aveva ormai terminato la costruzione della diga, e qui è stato dato anche il battesimo a un bimbo, figlio di una coppia di operai italiani. Poi un pranzo all’italiana nella mensa aziendale con qualche chiacchiera rilassante, e partenza per la missione di Soddo, capitale della regione del Kambatta e a metà strada verso Addis Abeba, dove è situata la missione di fra Maurizio Gentilini, che dirige una grande scuola-laboratorio di falegnameria e di meccanica. Qui, giunti a sera inoltrata, si è goduta l’accoglienza calorosa di Maurizio, e qui si è dormito la notte per poi ripartire il mattino seguente, per Addis Abeba, diretti al convento San Salvatore dei frati cappuccini in attesa di salire sull’aereo, previsto all’una locale della notte (due ore in avanti rispetto all’ora italiana). Finalmente, al buio del cielo africano, istoriato di stelle lucenti quali non si vedono in Europa, l’aereo si è alzato in volo diretto a Istanbul, dove, dopo quattro ore di sosta, i passeggeri hanno proseguito verso l’Italia. E alle ore 10 del 10 novembre sbarco sotto i freddi cieli bolognesi: l’aria di casa, ma tanta nostalgia degli oltre 500 denti estratti e di quelli curati con sistemi a volte improvvisati con fantasia, denti che non costituiranno più un problema per gli abitanti del Dawro Konta, altrimenti detto anche Kullo (scritto con due elle, ma pronunciato con una sola), chiaro indice di… un paese baciato dalla fortuna. All’anno prossimo? Forse, perché lo sguardo dei grandi occhi dei bambini etiopici e i sorrisi compiaciuti dei pazienti per i denti estratti non possono rimanere solo un ricordo.