Il gioco delle sorti di Dio

L’attuale sensibilità religiosa in bilico tra rivincita e sconfitta di Dio

di Brunetto Salvarani

Partendo da una vecchia storiella

«Ora mi torna in mente una vecchia storiella, dove uno dei personaggi - ovviamente siamo a Gerusalemme, e dove sennò? - è seduto in un piccolo caffè, e c’è una persona anziana seduta vicino a lui, e così i due cominciano a chiacchierare.
E poi salta fuori che il vecchio è Dio in persona. D’accordo, il personaggio non ci crede subito lì per lì, però grazie ad alcuni indizi si convince che è seduto al tavolino con Dio. Ha una domanda da fargli, ovviamente molto pressante. Dice: “Caro Dio, per favore dimmi una volta per tutte, chi possiede la vera fede? I cattolici o i protestanti o forse gli ebrei o magari i musulmani? Chi possiede la vera fede?”. Allora Dio, in questa storia, risponde: “A dirti la verità, figlio mio, non sono religioso, non lo sono mai stato, la religione nemmeno m’interessa”».
In questi giorni che Enzo Bianchi definisce cattivi (dal Salmo 49), il raccontino dello scrittore israeliano Amos Oz, tratto da Contro il fanatismo, non appare davvero solo una felice boutade. A ben vedere, il suo Dio sorprendentemente disinteressato alla dimensione religiosa fa il paio con un tema, quello della sua sconfitta, che a più di mezzo secolo dalla proposta di un cristianesimo non-religioso di Dietrich Bonhöffer e a un quindicennio da La sconfitta di Dio di Sergio Quinzio emerge sempre più come intrigante e meritevole di un approfondimento. Certo può apparire paradossale, rifarsi a una presunta debacle divina, nel cuore di una stagione in cui, semmai, numerosi quanto ben presenti all’opinione pubblica affiorano i segnali di una clamorosa smentita delle tesi che imperversavano nei dintorni del Vaticano II. Quelle che narravano, più o meno baldanzosamente, di un definitivo esaurimento della funzione pubblica di un Dio, almeno nel paesaggio culturale del cosiddetto “occidente” (lemma e concetto da usare con le molle, oggi più ancora di ieri). Eclissi del sacro, Fine della religione, Secolarizzazione della società, Oblio di Dio: questi i titoli di best seller, spesso assurti a slogan ben di là dal circuito teologico, che hanno contornato per un buon ventennio la ricerca sul posto delle religioni (massime quelle riconducibili alla radice abramitica) in un mondo ormai completamente disincantato, soddisfatto e proteso, ormai fuori tempo, a una sorta di magnifiche sorti e progressive. E che sembrava giustificare l’interrogativo, per nulla retorico, del Vangelo: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8b).

Il fuoco sotto la cenere

In realtà, il fuoco covava, al solito, sotto la cenere, e bastò un evento quasi periferico nello scacchiere strategico planetario come la fine del regime iraniano dello Scià, col contestuale ritorno al potere degli ayatollah sciiti (1979), per spingere uno studioso attento come Gilles Kepel a proclamare - dieci anni dopo - che Dio una volta di più, in realtà, stava rivincendo trionfalmente il match contro le forze che l’avevano espunto dall’orizzonte pubblico. Del resto, sarebbe stato sufficiente adottare un cannocchiale un po’ più mondialista, per scorgere qui il risveglio islamico dopo la fugace illusione del matrimonio col verbo marxista, e là il successo del pensiero neochassidico in Israele; il ruolo della teologia della liberazione nel processo di emancipazione sociale del continente latinoamericano e la pervasività dell’idea di hindutva a sancire, per un buon indiano, la necessità di rifarsi ad una purezza hindu; fino al desolante fardello identitario delle guerre in ciò che fu la Yugoslavia, nel cuore dell’Europa, con relativo, orrendo corredo di massacri e stupri condotti su base etnico-religiosa.
E la costellazione di indizi potrebbe allargarsi, per giungere alla contestuale funzione di collante civile che chiese, moschee e sinagoghe vanno offrendo a stati in cui è palpabile un disfacimento della politica; ma già questi pur rapidi cenni, riscontrabili alle più diverse latitudini, tracciano la mappa di un pianeta che - ben prima dell’analisi di Samuel Huntington sull’inevitabilità dello scontro fra civiltà - risulta, al netto delle ambiguità che ne emergono, ripopolato di dèi tanto in auge da esigere non di rado sacrifici umani ai loro devoti. Tutt’altro che sconfitti, dunque, e anzi saldamente piazzati in pole position dopo il rientro dall’esilio dal monte Olimpo in cui già il poeta Hölderlin, due secoli fa, aveva immaginato di scorgerli.
Tornando alla domanda iniziale, perché allora pare opportuno interrogarci su di un’idea che sconta, in partenza, la delicatezza di dover ricorrere ad un antropomorfismo sempre discutibile, quella appunto della sconfitta di Dio? In primo luogo, si potrebbe dire, perché occorre indagare attentamente su quale Dio sia quello di cui la sociologia sta registrando la rivincita. Sovente, infatti, si tratta di un Dio tribale, assolutista e premoderno, a dispetto delle tecnologie decisamente à la page adottate dai suoi seguaci. Un Dio sanguinario, nazionalista, incapace di fare i conti coi processi di meticciamento avanzato che sono il portato normale di tutta una serie di fenomeni diffusi su scala mondiale: la facilità di viaggi e comunicazioni, le immigrazioni figlie di squilibri tuttora paurosi, la labilità dei legami sociali e delle appartenenze, non più solide e durature come fino a ieri (quando matrimoni e credenze erano «finché morte non ci separi»). Un Dio, per dirla con un unico aggettivo, fondamentalista. A fronte del quale Umberto Galimberti ammonisce di non lasciarsi ingannare dalle folle oceaniche radunate attorno al papa o incollate agli schermi dai predicatori tv d’oltreoceano o dal fiorire di sette apocalittiche: dato che, più che di una rivincita di Dio, si tratterebbe piuttosto dell’ultimo lampeggiare del suo tramonto, «perché l’ordine del mondo, che un tempo era cadenzato dai suoi comandamenti, ora è regolato dalle ferree leggi della tecnica che a Dio più non si rifanno, perché di Dio hanno perso non solo il nome, ma anche il senso, l’origine e la traccia».

Un Dio low cost

Dall’altra parte, in contraddizione solo apparente col modello sinora evocato, affiora poi un Dio low cost: poco esigente, legato a chiese telematiche, che preferisce le cifre statistiche e la partecipazione ai tavoli del potere alle scelte etiche a caro prezzo. Diversamente rispetto a un fresco passato, oggi, infatti, persino una rapida istantanea sulle religioni le fotografa volentieri come un processo in continuo divenire, se «è possibile scegliere di essere atei, seguire un’ortodossia religiosa, cambiare confessione, ritagliarsi un proprio percorso all’interno delle religioni» (Peter Berger). Tutto appare più frastagliato, liquido, meno certo rispetto a ieri, e i credenti, in genere, si sentono più liberi, oltre che meno sicuri della loro direzione spirituale. Le consolidate istituzioni religiose appaiono più vulnerabili, e l’assolutezza del loro messaggio è messa in discussione dalla pluralità delle scelte possibili che ci troviamo davanti: un caleidoscopio che va complicandosi giorno dopo giorno, creando perplessità, dubbi e solo talora anche speranze. È il Dio, sincretistico e olistico, della Next Age, estrema propaggine ancor più individualistica della New Age, disposto a concorrere senza scrupoli al supermarket del sacro e a competere con altri messaggi di salvezza a colpi di workshop e manuali di benessere. E che ben s’adatta al dilagante bisogno di miracolismo: fraintendimento che viene da lontano, testimoniato a più riprese anche dai vangeli.
Ecco, sono innanzitutto tali caratteri, opposti ma alla fine complementari, che lasciano presagire, di là dai boom di facciata, come il Dio manifestatosi nella Bibbia, nel Talmud, nel Corano, stia vivendo con giustificata apprensione il suo fragoroso ritorno sulla scena pubblica. Fino a rendere legittimo chiedersi, con più di un analista, se si tratti di un ritorno dopo la parentesi della secolarizzazione (Habermas parla di una società postsecolare, e la formula sta avendo fortuna), o se non rappresenti piuttosto lo stadio finale della religione. L’ultimo atto di una pur fascinosa rappresentazione. In tale chiave, almeno nel panorama occidentale, più che sparire dalla scena, essa sarebbe invece liquidata attraverso la sua commodification, divenendo alla fine un mero prodotto di consumo: e la trascendenza alimentata dal supposto ritorno, più che approdare all’incontro col Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, condurrebbe a un trascendere se stessi in un’esperienza dal sapore intenso, emozionale, eccessivo, estremo, trasgressivo. Un giovane teologo inglese, Graham Ward, nel suo True Religion offre una lettura della trasformazione della religione attraverso la modernità dal sedicesimo secolo a oggi, parlando di un Dio a effetti speciali, con una religione ridotta a feticcio, merce fra le altre merci che ci consente di partecipare al ritmo frenetico del gioco capitalistico, con la percezione peraltro di non essere realmente in esso. Ed ecco il Dio virtuale, legittimo patrono della simulazione della realtà in cui siamo immersi ormai senza più accorgercene, capace di sedurre con il proprio fascino e di espandere il desiderio a dimensioni praticamente illimitate. Un orizzonte che - se confermato - potrebbe alla fine trasformare l’acclamata rivincita di Dio in una vera e propria, e amarissima, vittoria di Pirro.