Lucia e Gilberto, entrambi della Redazione di MC, sono alle prese con «un Dio fuori mercato» e parlano del linguaggio religioso in convento e fuori, in chiesa e in piazza, tra giovani e adulti. Ricordiamo in questo numero due nostri confratelli: Giancarlo Anceschi e Benedetto Camellini. Infine, ecco l’immancabile fioretto cappuccino riguardante questa volta fra Serafino Buratti e il suo “giornale per tutto l’anno”.

Nazzareno Zanni

Le difficoltà di un nuovo linguaggio

Intervista a Gilberto Borghi autore del libro Un Dio fuori mercato

a cura di Lucia Lafratta 

Lucia. Un Dio fuori mercato. La fede al tempo di Facebook è il titolo del tuo ultimo libro.
Attraverso il racconto dell’esperienza come insegnante di religione in una scuola superiore, parli dei giovani, ma non solo.

Quella che emerge dalle storie dei singoli mi pare che non sia solo la situazione dei ragazzi e della scuola, ma una situazione più generale di totale ignoranza sulle questioni del sacro da un lato e, dall’altro, di profondo desiderio di un qualche sacro. C’è una ricerca di qualcosa di altro e alto e mi chiedo cos’è successo perché la Chiesa, la comunità dei cristiani, ha perso per strada la capacità di intercettare la realtà, i bisogni degli uomini.

Gilberto. A questa domanda mi sono dato una risposta che non so se sia sensata: è successo che il mondo è cambiato, ma solo tra la metà degli anni Ottanta e Novanta si è cominciato a vedere cose che erano già in atto da tempo. È finita la modernità, quel tempo in cui gli esseri umani trovavano valori, fondati razionalmente, che, al di là delle appartenenze di casacca, li accomunavano. La Chiesa aveva tentato di dare una risposta alla modernità e ci aveva messo circa quattro o cinque secoli - grosso modo dalla Riforma agli anni Cinquanta e Sessanta - a trovare una risposta e ammettere che ci può essere un sentire comune. Questo però è finito. Proprio pochi anni dopo che il Concilio aveva dato la risposta più matura della Chiesa alla modernità, mentre faticosamente si trovava una risposta, nel frattempo il mondo cambiava. Ora ci sono condizioni che non consentono più all’essere umano di trovare nel nostro stile, nel nostro modello, mentale soprattutto, qualcosa di significativo.
Purtroppo non ce ne siamo resi conto fino a che non abbiamo cominciato a vedere una perdita consistente di peso: è da circa quindici anni che abbiamo cominciato a renderci conto di questa situazione. 

 Più che mancanza di peso e di presa è che si parla lingue diverse…

È vero. L’uomo occidentale parla un linguaggio che non è più centrato sulla testa, sul ragionamento ma sul cuore e sulla pancia. Non è più importante la coerenza logica ma l’emozione. Oggi ciò che è vero non è ciò che è logico o adeguato alla realtà, ma ciò che mi dà emozioni. Questo è un problema enorme, perché la Chiesa ci ha messo quattro secoli a cercare di produrre qualcosa che fosse comprensibile, da condividere intellettualmente, razionalmente con il mondo, ma ora non è più questo che serve e che può essere capito. 

Forse c’è riuscita ad un certo livello, se pensiamo a iniziative come quella del Cortile dei Gentili, luogo di dialogo tra credenti e non credenti: il filosofo Massimo Cacciari e il biblista Gianfranco Ravasi si intendono bene, parlano la stessa lingua.

Certo che tra loro si capiscono, ma se Cacciari parla con i miei studenti, e anche con studenti del liceo classico, non viene capito, perché è un intellettuale “modernissimo” nel senso di cui dicevamo. Tra loro si capiscono, noi li capiamo perché siamo costruiti così, ma i ragazzi no. Dopo i primi anni di insegnamento, la mia fatica più grande è stata quella di dovermi decostruire mentalmente, se no davvero parlavo ai muri, non perché dicessi cose difficili ma perché non mi facevo capire. Ho tentato di recuperare un linguaggio che fosse più vicino a quello dei ragazzi. Ho messo da parte la mia costruzione mentale, facendo un lavoro faticosissimo, ma indispensabile perché non potevo andare avanti a parlare a dei muri. Capisco che la mia testa è ancora costruita come prima, ma in classe la devo riprogrammare.
Faccio un esempio: il film di Mel Gibson, The passion, che a me non piace particolarmente perché è troppo sentimentalista e contiene alcuni errori storici. Ho visto che i miei ragazzi ne vengono sempre colpiti, presi dentro a quella emozione riescono a entrare dalla parte di Gesù dentro la sua passione. Mi sono chiesto qual è la motivazione e mi sono risposto che quello è un film costruito sulle emozioni e non sulle idee. Fa passare il senso della storia di Cristo attraverso le emozioni.
E per operare questo cambiamento nel mio percorso professionale, ho fatto anche una scelta personale di investire, oltre che energie, denaro per studiare e acquisire strumenti che mi consentissero di imparare a gestire un po’ meglio le relazioni.

 A proposito dell’insegnamento della religione, penso che sia molto difficile e mi chiedo cosa viene insegnato e cosa resta.

Dopo molti anni di insegnamento, penso che, al termine dei cinque anni, il miglior risultato possibile sia quello di far capire ai ragazzi che la dimensione religiosa è importante e fondamentale se vogliono essere se stessi. Se mi riesce questo, io sono più che contento. Questo non ha niente a che fare con la semplice conoscenza dei contenuti, ma con le abilità, le competenze che si mettono in moto in loro.
Per fare questa cosa mi sono reso conto che, soprattutto negli ultimi anni, è diventato più importante il mio modo d’essere e meno ciò che dico. Come lo dico e non a quale fine lo dico.
Sono arrivato alla conclusione che, alla fine, quello che conta è la qualità della felicità che tu ti porti dentro. Gli altri riescono a percepirla anche sotto la soglia della coscienza e fa la differenza nella disponibilità ad ascoltarti; in classe è questo che fa la differenza, perché i ragazzi, dopo che tu sei entrato, in pochi minuti l’hanno già capito. Vale per tutti gli insegnanti e a maggior ragione per un insegnante di religione che non è materia curricolare. Il 79% che ha scelto l’insegnamento della religione nelle mie classi io lo considero un successo: di fronte al nulla dell’ora alternativa, di fronte al fatto che fare religione non va di moda e a come la religione viene vista e presentata in Italia, il 79% vuol dire che i ragazzi hanno una domanda aperta, interessi e voglia di capire. Ciò che fa la differenza è l’autenticità del docente in classe e la capacità di far capire che essere adulti è una cosa bella e che si può essere abbastanza felici di se stessi. Quando colgono questo e che il vangelo lo vivi dentro e non solo esteriormente, a quel punto è fatto tutto quello che è possibile fare. Più di questo non si può anche perché siamo a scuola e non in parrocchia. Se riesco a metterli nella condizione di rivedere la loro posizione pregiudiziale nei confronti di una certa idea di fede, di morale e di modo di fare scuola, ho fatto tutto ciò che è possibile.

 La CEI ha un’idea di quello che accade nella scuola?

Purtroppo ho il sospetto che non ne abbiano la più pallida idea. Io ho l’impressione che vivano in un mondo altro, come si capisce dal linguaggio che usano per parlare con le persone, anche in ambito ecclesiale, che non riesce neanche ad arrivare vicino ad un linguaggio che le persone potrebbero ascoltare. L’immediatezza di papa Francesco è spiazzante, perché lui ha questa capacità che si è costruito in Argentina. Le persone, guardandolo e sentendolo, si rendono conto dopo la terza parola che quello è uno che si può ascoltare a differenza di alcuni altri che subito capisci che non si possono ascoltare.
Anche i programmi per l’insegnamento della religione risentono davvero di questa distanza dalla reale condizione dei miei studenti. Chi li ha scritti non ha un’idea di cosa succede nelle classi, ragionano come abbiamo detto e soprattutto sono ancora convinti che l’insegnamento della religione serva a produrre la conoscenza dei dati di una determinata religione. Questa roba non è più centrale nella scuola italiana, neanche per l’italiano e la storia. Ma questo non viene capito da chi legifera sulla scuola, ma noi che ci siamo dentro lo vediamo. La scuola dovrebbe aiutare a far sì che i ragazzi apprendano strumenti esistenziali, culturali, educativi. Il che vuol dire lavorare sul metodo attraverso i contenuti. Ma pochi hanno voglia metterci le mani.
Nel 1983 Franco Frabboni in un convegno all’università di Bologna diceva che, se non si mette mano ai metodi utilizzati dagli insegnanti, non cambia nulla. Sono passate quattro riforme… qualcosa sta cambiando da qualche anno, da quando cominciano ad arrivare insegnanti giovani con meno di trent’anni, che insegnano magari materie un po’ particolari e portano una testa costruita diversamente, e si vede. Per loro è spontaneo far lezione in modo diverso, mettendo l’attenzione sui processi e non sui contenuti. Perciò tra qualche tempo potrà cambiare qualcosa. Così come per la generazione dei vescovi: bisognerà aspettare quindici o venti anni per avere vescovi costruiti con una testa diversa, che sentano il mondo in un modo diverso.
Sull’insegnamento della religione la CEI dovrebbe avere il coraggio di ripensare la confessionalità, e riaprire con lo stato la definizione dell’IRC. La speranza è che si possa andare verso lo studio della fenomenologia delle religioni, avere due ore alla settimana rendendolo un insegnamento curricolare, sdoganando sul serio a livello dello Stato la dimensione religiosa dei cittadini. Se io stessi al programma strettamente, eliminerei la maggior parte delle domande dei ragazzi, che nel programma spesso non trovano spazio. Per me è importante che colgano l’importanza dell’elemento religioso, della dimensione religiosa. Poi, se la vogliono coltivare nel buddhismo, che lo facciano! Intanto però io ho dato loro uno sguardo cristiano sul buddhismo. La confessionalità andrebbe ripensata in questa direzione, non tanto sulla definizione dei contenuti da insegnare.