L’Eurogambero

L’Europa deve ritrovare unità di intenti sul piano etico e politico

 di Romano Prodi  
presidente del Gruppo di lavoro ONU-Unione Africana sulle missioni di peacekeeping in Africa

 La crisi di Schengen

«Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare». Queste poche ma bellissime parole indicano un dovere che ha segnato la storia dall’Europa dagli anni Cinquanta sino ad alcuni anni fa. 

Per almeno cinque decenni, infatti, alcuni Stati europei - inizialmente sei - hanno deciso di ridurre gradualmente la propria sovranità nazionale per costruire uno spazio comune di pace, prosperità e solidarietà che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Un progetto che con l’accordo di Schengen ha permesso a milioni di cittadini europei di muoversi e spostarsi liberamente e senza controlli all’interno dei confini di quasi tutti i membri dell’Unione Europea.

Dopo gli attacchi terroristici di Parigi dello scorso novembre e il continuo e crescente flusso di migranti dall’Africa e soprattutto dalla Siria, alcuni paesi, come Austria, Danimarca, Germania, Ungheria, Svezia, hanno reintrodotto controlli temporanei ai confini. In questo modo nuovi muri sono sorti in uno spazio comune che avrebbe dovuto cancellarli definitivamente. Sebbene la reintroduzione temporanea dei controlli sui confini sia consentita dalla legislazione europea per questioni di “sicurezza nazionale”, non vi è dubbio che Schengen sia oggi in crisi. Come non vi è dubbio che si tratti di una crisi relativa al “dovere di ospitalità”. Quel senso di solidarietà e di destino comune alla base dell’integrazione europea appare oggi fortemente indebolito, in un momento in cui l’Europa avrebbe bisogno non di frammentazione ma di ulteriore integrazione tra i suoi membri.
Di fronte ai flussi migratori l’Europa è infatti divisa. La comunanza di vedute che ha caratterizzato la famiglia europea negli anni Novanta e nei primi anni del XXI secolo non c’è più. Ma i politici europei fanno esattamente il contrario di ciò che dovrebbero fare: non dovrebbero infatti seguire le paure delle loro rispettive popolazioni e tantomeno cavalcarle. Dovrebbero invece interpretare quelle paure dimostrando unità di intenti e strategia comune.
Gli attuali e futuri flussi migratori non sono, infatti, un problema nazionale e neppure continentale: sono un fenomeno di portata mondiale. Il mondo è diventato più piccolo e le paure sono aumentate. Anche questi flussi migratori sono in parte il frutto della globalizzazione e delle disparità crescenti nel mondo. È bene sottolineare che le ondate di uomini, donne e bambini che arrivano oggi in Europa sono sì parte di uno stesso fenomeno ma hanno origini diverse, che è necessario tenere in considerazione per gestire nel breve e medio-periodo il fenomeno e per risolverlo nel lungo termine. Le principali ragioni sono due: la guerra e la fame.

 La necessità di progetti politici

I flussi migratori dal Medio Oriente sono, in gran parte, la conseguenza del conflitto armato in Siria. Al momento la portata di questi flussi è imprevedibile a causa del perdurante scenario di guerra. Il flusso dall’Africa, invece, ha una natura più profonda e probabilmente di lunga durata, la cui soluzione risiede in investimenti maggiori in quelle terre, in modo da ridurre i flussi in futuro. Quella parte dell’umanità che ha fame vuole infatti emigrare da paesi in cui sottosviluppo e povertà pongono una minaccia continua alla vita delle persone. Un solo dato: l’attuale miliardo di africani raddoppierà nell’arco di poco più di una generazione, specie nelle aree sub-sahariane più depresse, con un’età media della popolazione molto bassa (19 e, in alcuni paesi, sotto i 14 anni, a fronte dei nostri 46/47).
L’Europa non potrà far fronte a un’ondata senza limiti. E non basta chiedere ai potenziali migranti cosiddetti “economici” di non venire in Europa, come qualcuno ha fatto. Per questo sono necessarie maggiori iniziative per lo sviluppo, a partire da progetti politici europei in favore, ad esempio, dell’istruzione nei Paesi africani. Quando ero presidente della Commissione europea avevamo prospettato tante iniziative comuni, ma sono rimaste per molti versi lettera morta. Operare concretamente per lo sviluppo dell’Africa è oggi non solo un atto di solidarietà ma una vera e propria esigenza politica europea. Di certo, questa massa enorme di uomini, donne e bambini non la potremo mai assorbire interamente, ma una politica europea unitaria riuscirebbe almeno a gestirla.

 Difficile ma necessario

Viviamo dunque in un mondo in cui ci sono enormi movimenti migratori che continueranno a crescere in futuro. In tale situazione ciò di cui vi è bisogno sono una politica dell’immigrazione europea attiva, a partire dagli accordi con i governi di provenienza, di aiuti allo sviluppo, e intese sulla redistribuzione tra i diversi paesi. L’Unione Europea e i suoi stati membri sono il più grande donatore a favore dell’Africa, ma la loro azione è lenta, frammentaria e spesso condizionata da fattori culturali. Tuttavia, lo spazio per la crescita della presenza europea c’è ed è molto grande: bisogna però volerlo occupare.
In questi anni di crisi l’Europa non solo ha perduto la sua capacità di progettare attivamente il proprio futuro, ma ha anche perduto parte del suo slancio vitale. Questa rassegnazione dell’Europa alla perdita del suo patrimonio di solidarietà è preoccupante da un punto di vista etico ma anche politico. Continuando in questo modo non si va e non si arriva da nessuna parte. Anzi la lentezza e lo scarso coordinamento tra gli Stati Membri dell’Unione non ha fatto altro che rafforzare le spinte populistiche in molti paesi europei. Le recenti elezioni tedesche hanno dimostrato che i flussi migratori, quando sono mal gestiti, cambiano la natura profonda delle società europee. Ritrovare la comunanza d’intenti che ha caratterizzato il processo di integrazione europeo per molti decenni non sarà un obiettivo facile da raggiungere. Non solo vi sono state infatti troppe differenze e tensioni negli ultimi anni, ma le priorità nelle agende dei paesi sui quali grava la responsabilità di disegnare la nuova Europa sono oggi molto diverse fra di loro. Un obiettivo dunque difficile da raggiungere, ma sempre più necessario.