La ricerca dell’unità dei cristiani si incarnava nel quotidiano di frère Roger, priore di Taizé: accoglieva con gioia ogni azione che potesse avvicinare i cristiani di tradizioni differenti, come evitava ciò che potesse ritardare la loro riconciliazione. Meticoloso, ma mai frettoloso, piuttosto che alla rapidità dello sviluppo del movimento ecumenico, egli mirava alla sua profondità, nutrita della Parola di Dio, della preghiera e della contemplazione.

Barbara Bonfiglioli

 Uniti, perché il mondo creda

Attualità di un precursore: frère Roger di Taizé (1915-2005)

 di Silvia Scatena
docente di Storia contemporanea e studiosa di Storia del movimento ecumenico

 La profezia di Taizé

«Tutta la storia del movimento ecumenico non è forse [...] scandita da alcuni impulsi geniali provenienti da parte di non teologi, da Nathan Söderblom a Giovanni XXIII?». Così esordiva il fratello di Taizé Robert Giscard in un intervento presentato a un incontro pastorale organizzato all’inizio del 1964 dall’Associazione dei pastori di Francia nel tratteggiare la visione, a un tempo realistica e profetica, che frère Roger e la sua comunità avevano in quel momento dell’allora «bruciante» questione ecumenica.


Da questa domanda mi piace ripartire per ricordare, in occasione della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, la figura di un «precursore» di cui pochi mesi fa ricorreva il centenario della nascita e il decennale della morte: Roger Schutz o frère Roger di Taizé. Una rilettura del suo itinerario umano e spirituale mi sembra infatti non possa che confermare l’impressione di frère Robert, uno dei primi sette fratelli protestanti a fare, nella Pasqua 1949, il passo della “professione” impegnandosi per la vita al celibato, alla condivisione dei beni e all’accettazione di un’autorità. Al di là delle evoluzioni significative conosciute dalla comunità di Taizé nella sua traiettoria di ormai 75 anni, mi sembra infatti che anche l’itinerario di frère Roger lasci chiaramente intravedere alcuni di questi «impulsi geniali»: impulsi che sono all’origine della singolare parabola di quella che da piccola confrérie di intellettuali protestanti di una Svizzera incuneata nella Germania del nazismo trionfante è poi divenuta la comunità che conosciamo oggi, “palestra” di alfabetizzazione ecumenica per generazioni di giovani europei e non solo.

 Urgenza dell’unità

Provando a rileggere nell’insieme l’itinerario di frère Roger, due mi sembrano essenzialmente questi impulsi, o le intuizioni forti che esso ha lasciato in consegna all’ecumenismo del ‘900.
Prima di tutto, direi, il senso di un’urgenza dell’unità, la percezione, cioè, che nel complesso tutte le chiese vivessero ormai in una situazione in cui il compito ecumenico era divenuto una questione di esistenza per il futuro stesso del cristianesimo. «La nostra unità diventerà una questione di vita o di morte», scriveva frère Roger nel 1955, a conclusione di un testo destinato ai nuovi fratelli che entravano nella comunità e poi rimasto incompiuto. In un momento difficile nella storia dei rapporti della comunità con il protestantesimo francese, negli stessi termini si sarebbe ancora espresso cinque anni dopo con il presidente del Consiglio nazionale della Chiesa riformata di Francia: «Attraverso alcuni fratelli che conducono una vita povera fra uomini molto poveri – notava in uno scambio del 1960 – intuisco quanto l’unità della chiesa sia questione di vita o di morte per la missione cristiana. Più che mai sono colto da questa realtà, cioè che noi non siamo ascoltati perché non rendiamo vera la preghiera del Cristo: essere uno perché il mondo creda».
«Una questione di vita o di morte»: in queste parole credo possa essere efficacemente sintetizzato il senso dell’urgenza che ha connotato la peculiare traiettoria ecumenica di frère Roger e, con essa, quella di una comunità protesa nello sforzo «di tenerci davanti a Dio perché venga l’unità di tutti in una sola Chiesa», come segno anticipatore dell’unità futura capace di sostenere la speranza dei cristiani «fino al giorno in cui si varcherà quella tappa definitiva che ci condurrà alla visibilità dell’unità». Un senso dell’urgenza che era connesso a sua volta all’evidenza e alla immediatezza di due consapevolezze che sempre hanno abitato il fondatore di Taizé: 1) che se l’unità era qualcosa di voluto dal Cristo, essa doveva poter essere vissuta senza tardare; 2) che essa rappresentava quindi la precondizione indispensabile della ricerca di un’unità più universale, giacché la chiesa, «nel cuore di Dio, è vasta quanto l’umanità».

 Superamento delle tradizioni

L’altro elemento, l’altro impulso, che unitamente a questo ha connotato in modo peculiare tutto l’itinerario di frère Roger, mi sembra quindi potersi individuare nell’idea centrale di un ecumenismo da intendersi come necessario cammino in avanti, che chiede agli altri e accetta per sé le purificazioni e i passi possibili, come dépassement –“superamento”–, di ciascuno che può costare sacrifici e una certa forzatura delle proprie tradizioni per obbedienza all’appello più forte dell’unità da parte del Cristo. Solo questo continuo movimento in avanti, capace di pagare dei prezzi e di non guardare al passato e alle sue ferite, avrebbe potuto consentire per il priore di Taizé prima un concreto avanzamento nel cammino verso “una stessa e visibile Chiesa”, quindi, con la sua precoce disillusione circa l’effettiva disponibilità delle istituzioni ecclesiali a operare quei passi indispensabili per andare oltre la soglia del dialogo, l’apertura della dinamica evangelica della riconciliazione. Una riconciliazione da realizzare anzitutto nell’intimo di sé stessi e che, dalla seconda metà degli anni ’70, sarebbe sempre più divenuta il nuovo modo di frère Roger di chiamare l’unità quando non intravede più all’orizzonte quel che all’inizio del Vaticano II gli era parso invece potersi iscrivere nella rubrica del possibile: la riunione dei cristiani attorno ad una stessa mensa.
Unità come cammino, dunque, come movimento. “Non restare mai fermi”, era il modo di frère Roger di dire che l’ecumenismo è una via, un movimento incompatibile con l’accettazione dello statu quo della divisione. “Non prendere mai parte allo scandalo della divisione dei cristiani [...]. Abbi la passione dell’unità del corpo di Cristo”, si legge nel preambolo della Regola di Taizé. Urgenza, cammino in avanti, fantasia dell’anticipazione e audacia della ricerca, rischio anche, ma mai rinuncia a tutti gli sforzi possibili o aggiornamento sine die della mèta dell’unità dei cristiani, condizione indispensabile della ricerca di un’unità più universale e dell’edificazione della città umana nel mondo: questa mi sembra essere essenzialmente la “cifra” di quella sete di unità che ha attraversato tutto l’itinerario di frère Roger e che ha variamente abitato tutta una generazione spirituale e teologica per la quale la passione per l’unità è stata a un tempo dono e compito, insopprimibile esigenza di una fede che, senza rifugiarsi nell’escatologismo del già e non ancora, non poteva che tendere a «una sola e visibile chiesa», alla pienezza dell’unità voluta dal Cristo.