FIORETTO CAPPUCCINO

Come frate Masseo smorzò la sete 

L’epopea dei gloriosi giri d’Italia con le epiche imprese di Gino Bartali e di Fausto Coppi continuava a infiammare la fantasia popolare. Quando i corridori, dopo aver scalato alte montagne, transitavano per i paesi della pianura, la gente dei paesi si assiepava lungo i margini delle strade, e l’entusiasmo era tale che al passaggio di ogni ciclista, fosse anche l’ultimo, si alzava un coro di urla di incitamento. Durante la gara i corridori, per lo sforzo a cui erano sottoposti, necessitavano di notevoli quantità di acqua da bere, e i gregari, atleti meno dotati, si assumevano il compito di riempire le borracce alle fontane sulla strada, e di consegnarle al capitano della loro squadra, il campione. Allora ci si accontentava di acqua di fonte…


Nel primo pomeriggio di un giorno di metà maggio frate Masseo, di convento a Cesena, prese la decisione di dirigersi verso la campagna cesenate per la questua delle uova. Salì sulla bicicletta, una bicicletta da donna più alta di lui e con tanti anni nelle ruote, ma a quei tempi roba di lusso in convento, e prese la strada che scendeva in città. Su quel catorcio si sentiva come seduto in cima a un campanile, pur avendo abbassato al massimo l’altezza del sellino per via delle sue gambe corte. Il problema maggiore per frate Masseo era arrestarsi: tirava i freni, quasi sempre fuori uso, piantava i piedi a terra, continuando però a saltellare in avanti ancora per diversi metri. Se non riusciva a fermarsi in tempo urlava: «Largo! Largo!», suonando ripetutamente il campanello sul manubrio. Ma se avesse avuto paura di queste inezie, non sarebbe mai montato su una bicicletta, quando invece quelle malmesse due ruote lo portavano più lontano di quanto gli consentiva il passo breve dei suoi piedi. Frate Masseo, in vista dell’abbondanza di uova che si augurava di raccogliere, oltre ad appendere al manubrio la tipica “sporta” rigida cappuccina dei frati cercatori, aveva assicurato al portapacchi dietro il sellino una cassetta di legno per collocarvele, e, per evitare che le uova sul fondo si rompessero, vi aveva aggiunto uno strato di sabbia, mentre le altre le avrebbe separate con strisce di cartone ondulato, di cui aveva fatto scorta legandole sopra la ruota anteriore.
Raggiunta la campagna cesenate, passò di casa in casa, e la questua si dimostrò generosa, tanto che la cassetta e la sporta si riempirono velocemente, così che frate Masseo prese la via del ritorno. Non andava mai a grande velocità, ma con quel prezioso carico era costretto a tenere un’andatura più prudente per evitare che i sassi sporgenti dal terreno e le ampie buche delle strade di campagna lo facessero cadere. Quando spuntò sulla via Emilia, tirò un respiro di sollievo, finalmente a suo agio sulla strada asfaltata, e per di più, quel giorno - cosa inusuale - libera da automobili. Frate Masseo, intento solo a pedalare, non aveva tempo di chiedersi il motivo.
Dopo aver percorso qualche chilometro, in corrispondenza di un abitato vide gente assiepata lungo il bordo della strada. Frate Masseo non sapeva rendersi conto del perché. Aveva visto, sì, delle grandi scritte con vernice bianca sull’asfalto, W Coppi, W Bartali, ma non vi aveva dato peso e aveva lasciato perdere quelle sciocchezze. Intuì che cosa stava avvenendo, quando la gente, vedendo quel fratino arrivare in bicicletta, cominciò a incitarlo: «Fórza, fratèn! Dài, dài, che sei il primo!». Solo allora si ricordò che di lì sarebbe dovuto passare il giro d’Italia. Ma ormai l’intrusione era avvenuta. Era sbucato da una cavedagna incustodita senza che nessuno si fosse poi premurato di fermarlo. Galvanizzato dalle urla, si mise a pedalare più velocemente, mentre la gente continuava a battere le mani e gridava ancora più forte: «Dài, dài, fratèn!». Frate Masseo, con quella bicicletta malmessa, più di tanto non poteva accelerare, anche perché, più che correre il giro d’Italia, a lui premeva arrivare in convento con le uova intere.

Finalmente come Dio volle, riuscì a svoltare in una stradina fuori della via Emilia, e così si lasciò alle spalle la gente che ancora lo incitava divertita. Qualche minuto dopo, usando ogni precauzione, si fermò per smaltire la fatica accumulata, accorgendosi del sudore che gli aveva bagnato tutto l’abito, non solo per la fatica di pedalare, ma anche perché il sole di quel pomeriggio picchiava sul serio. Avvertiva un’arsura insopportabile e si chiese dove trovare un po’ d’acqua per smorzare la sete. Lui non aveva gregari portatori d’acqua, e se voleva dell’acqua doveva cercarsela da solo. Ma per quanto spingesse lo sguardo a destra e a sinistra non vedeva nessuna fontana, né alcun pozzo con il secchio appeso. Che fare? Andare a cercare acqua nelle case sarebbe stato un perditempo, perché poi ne avrebbe perso dell’altro in chiacchiere.
Frate Masseo non poteva però più resistere a tanta sete. Pensa che ti pensa, finalmente trovò la soluzione: «Berrò un uovo». Appoggiò la bicicletta a un albero e aprì la cassetta posta dietro il sellino. Si sedette sull’erba, ne prese due e si disse: «Mi bevo l’uovo che si rompe per primo». Scocciò le punte delle uova l’una contro l’altra, e all’uovo che si era incrinato tolse le scaglie del guscio che ne otturavano l’apertura. Piegando poi la testa all’indietro, ingoiò tutto l’interno e gettò il guscio vuoto nel fosso accanto. Ma la sete… Un uovo solo non era stato sufficiente. Ne prese un terzo, fece la medesima operazione con il secondo, bevve quello che si era rotto, gettando poi il guscio accanto all’altro, nel fosso. Ne prese un quarto, un quinto, un sesto e così via, come al ritmo delle sue pedalate sulla strada del giro d’Italia. Quando si sentì pieno e dissetato, volse lo sguardo ai gusci nel fosso e per curiosità li contò. Quindici! Ebbe la tentazione di tornare indietro alla questua per rimpiazzare quelli bevuti, ma poi, ricordandosi del giro d’Italia ancora in atto, rinunciò.
Quando giunse in convento, percorrendo l’ultima ripida salita a piedi, depose la bicicletta al sicuro nella stalla per recarsi subito in chiesa con gli altri frati a recitare il rosario e per la meditazione silenziosa, che quella sera fu alquanto tormentata. Sentiva un grande peso nello stomaco, sembrandogli di avere ingoiato un diavolo con corna e zoccoli. Oh, se avesse dato retta ai frati anziani che esortavano i più giovani a non bere anche quando la sete faceva valere i suoi diritti! Lui, invece, quel giorno si era ingollato ben quindici uova.
Quando si sedette a tavola per la cena, l’appetito non intendeva venire, tanto che neppure un cucchiaio della povera minestrina serale andava giù. Al padre Guardiano non sfuggì il viso tirato di frate Masseo, sempre così allegro, e gli chiese perché non mangiasse nulla. Frate Masseo confessò che lui aveva già bevuto e… mangiato. Il padre Guardiano gli gettò uno sguardo di benevolo rimprovero, chiedendogli il motivo per cui si era permesso di mangiare fuori convento. Fu qui che frate Masseo si trovò costretto a confessare il suo “peccato” davanti a tutti, giustificandosi col dire che «la séd l’é catìva» («la sete è cattiva»). I frati dovettero ricredersi sulla proverbiale ingenuità di frate Masseo, e ciascuno a modo suo ricostruì nella fantasia la scena buffa di quel piccolo frate, che, almeno per un po’, era stato in testa nella tappa del giro d’Italia e che si era scolato quindici uova per smorzare la sete.