Nell’immaginario popolare, forse si pensa che un convento cappuccino sia il regno del silenzio assoluto: non è così. Si dà qui il nome e il senso di ogni rumore o suono conventuale. Il Fioretto cappuccino parla questa volta di frate Masseo, di giro d’Italia, di uova e di tanta sete.

Nazzareno Zanni

 I rumori silenziosi di un convento

Dalla polifonia di campane all’avvento dell’elettricità 

A partire dalla chiesa

Un convento cappuccino, nell’immaginario popolare, è un luogo fatto di pietre silenziose, abitato da frati impegnati nella preghiera in chiesa o nella propria cella, o dediti allo studio, o immersi nella meditazione, o applicati al lavoro dell’orto e del giardino con la mente assorta in pensieri celestiali. Un padre maestro di novizi insegnava loro che un convento perfetto era fatto proprio così: pur popolato da tanti frati, doveva apparire deserto per il silenzio che doveva regnarvi.

La realtà, tuttavia, è ben altra, perché in ogni convento fanno capolino molteplici rumori e suoni, ognuno con un suo significato, che scandiscono il ritmo della giornata di chi vi abita e ne regolano le attività.
Cominciamo dalla chiesa e dal coro annesso. A lato dei confessionali vi è il pulsante di un campanello elettrico con un cartoncino appeso a bella vista con i nomi dei frati confessori, ciascuno associato a una sorta di alfabeto morse, fatto di linee lunghe e linee brevi. Quando un penitente si presenta in chiesa, legge l’elenco dei nomi, e preme più volte il pulsante con suonate lunghe o brevi, per poi attendere che il confessore prescelto sbuchi da qualche porta. Il trillo di quelle suonate in codice invade tutto il convento e anche l’orto, affinché tutti i frati lo possano udire e interpretare. Il ricercato sospende così la sua attività per portarsi in chiesa, mentre gli altri proseguono nelle loro occupazioni.
Anche alla porta che dà nel coro, posto dietro l’altare maggiore e deputato alla preghiera dell’ufficio divino, vi è una campanella, che viene fatta squillare ripetutamente quando i frati sono chiamati alla preghiera comune. E quando la preghiera inizia, allora il convento si riempie di parole rivolte a Dio e, a volte, anche di canti più o meno sussurrati. Andando alquanto indietro nel tempo, tra i cappuccini non era consentito il canto o, più propriamente, era in uso il canto “recto tono”, per cui tutto l’ufficio divino era “cantato” come se la scala musicale fosse composta da una nota sola: un modo anche questo per interpretare la povertà.

 Memorabilia

Fino a pochi decenni fa, all’ora di pranzo o di cena veniva suonato il “coppo”, una sorta di gong costituito da una lastra di marmo resistente, o di ferro o anche solo da una “coppessa”, cioè un coppo in laterizio più grande atto a raccordare i piani di falda del tetto, che viene battuto con un rozzo martello di legno appeso accanto. Dopo pranzo e dopo cena vi era lo spazio per un breve scambio di opinioni tra i frati, e all’ora fissata veniva suonato un colpo solo di coppo, per indicare che si entrava nel silenzio rigoroso, dopo il pranzo, per una breve pennichella atta a recuperare il sonno notturno perso e, dopo cena, per segnare l’inizio del riposo della notte.
Anche la notte non era esente da rumori. A metà della notte il frate di turno imbracciava la “trottola”, una cassa di legno a forma di tronco di piramide a base rettangolare con funzione di cassa di risonanza, con una ruota dentata all’interno, mossa da una manovella, che, facendone urtare i denti contro linguette di legno fissate sul fondo, le faceva vibrare con un baccano simile al verso di una rana in amore o al crepitio di una mitragliatrice, capace di svegliare per la preghiera notturna anche i frati più sordi.
Al mattino presto si alzava lo strepito di un altro strumento di tradizione fratesca: le “canne”, un attrezzo fatto di due pezzi di legno con impugnatura cilindrica, e il resto a forma di parallelepipedo che una sega grossolana aveva ridotto in tante lamelle; battendo le lamelle dei due strumenti le une contro le altre si otteneva uno stridìo così forte da levare il sonno dagli occhi. E così di nuovo si tornava in coro per le preghiere previste e per la messa, preceduta dai rintocchi della campana del campanile a vela della chiesa, dallo scampanìo della campanella all’uscita della sacrestia, e accompagnata dallo scuotimento di un campanello al momento del sanctus e dell’elevazione.
A mezzogiorno e all’Ave Maria, o per avvisare il vicinato dell’approssimarsi dell’ora della messa, dal campanile si liberavano nell’aria gli squilli a distesa della piccola campana conventuale e, quando per l’ufficio notturno del mattutino era prevista la recita del Te Deum, allora un frate la suonava dalla prima parola all’ultima. Il silenzio del convento era incrinato anche dai possenti tic tac e dai battiti sonori delle ore delle grosse pendole disseminate ovunque, nei corridoi, nel coro, nella cucina, nel refettorio e nella biblioteca, alla cui porta d’entrata campeggiava la scritta “Silentium”.
In prossimità dell’ingresso in convento era collocata un’altra campanella, collegata, mediante una corda o segmenti di filo di ferro uniti tra loro con snodi mobili, a una maniglia posta all’esterno. Chiunque arrivasse si annunciava tirando una volta sola la maniglia, a meno che non fosse il padre provinciale, al quale era concesso di tirarla due volte, e i frati, avvertiti da quei due squilli, “stavano in campana”. Se qualche forestiero impudentemente tirava più volte la maniglia, come se fosse la corda della campana di un campanile, i frati non mancavano di commentare: «Ma chi è quel matto?». Qualora il convento fosse fornito di un apparecchio telefonico, le cose si complicavano: i suoi ripetuti squilli erano amplificati dai larghi spazi dei corridoi, e il frate più vicino si affrettava ad alzare il cornetto per rispondere, dando poi una voce a piena gola a chi era desiderato. 

Voci di zappa e ragli di somari

Questa geografia musicale era tipica degli spazi conventuali. Fuori, nel giardino, nell’orto e nella stalla, altra era la musica: il lamento della terra quando l’ortolano la feriva con la zappa, il canto senza parole di chi coglieva gli ortaggi dell’orto o i frutti di stagione o l’uva in autunno, i vigorosi colpi della scure di chi si accaniva contro i ceppi di legno per spaccarli e ridurli a dimensioni idonee per la bocca della stufa della cucina. Anche la stalla aveva le sue voci: il nitrito del cavallo o il raglio dell’asino quando si sentivano soli o avevano fame, lo stentoreo chicchirichì mattutino del gallo e il coccodè delle galline appena fatto l’uovo, i grugniti soddisfatti dei maiali di fronte al trogolo pieno dei resti della cucina o della mensa dei frati, il mormorio gutturale fatto di ripetuti uhhhrrrr dei piccioni in corteggiamento. Tanti suoni e voci che al frate responsabile della stalla o del pollaio parevano canti di poesia.
Questa era la polifonia di un convento, fatta di suoni dalle più varie tonalità, testimoni del fervere di una vita all’apparenza costruita solo sul silenzio. Oggi sono scomparsi tanti rumori tradizionali, per fare spazio ad altri, che poco spazio lasciano all’inventiva, e che spesso favoriscono l’individualismo. I frati sono diminuiti contemporaneamente alla moltiplicazione e all’evoluzione dei mezzi di comunicazione, e ora il silenzio conventuale ha dimenticato molto dell’allegra polifonia di un tempo.