E il nome si fece avverbio

Nella nostra lettura del mondo, perdiamo di vista la sinergia tra forma e contenuto

 di Gilberto Borghi
della Redazione di MC 

Verità negli interstizi

«Ma quando dico “ti voglio bene”, uso un nome o un avverbio?». Giovanni mi ha stupito ancora! Sono davvero insospettabili questi adolescenti. Altro che generazione X! A volte sono abilissimi a dissimulare il centro del loro essere, ma quando sentono che non c’è pericolo a lasciarsi andare, allora mostrano delle perle che ancora mi stupiscono dopo quasi 30 anni che li frequento.

Giovanni fa la terza, vive per lo skate, i suoi si sono separati l’anno scorso dopo 19 anni di matrimonio. Lui quasi non ha fatto una piega. Sornione, sveglio, regolare quanto basta per non dare troppo nell’occhio, all’apparenza riservato, ma invece molto libero quando le cose può deciderle lui, soprattutto con le ragazze... Già l’anno scorso mi aveva colpito con alcune domande “oblique” sulla storicità di Cristo, che avevano stuzzicato un po’ la mia attenzione per le cose fuori asse.
Finita l’ora della settimana scorsa, mentre scrivo il mio registro, si accosta alla cattedra e mi fulmina con quella strana domanda: ma quando dico “ti voglio bene”, uso un nome o un avverbio? «Ma che domanda mi fai Giovanni?». «Beh sì prof, quel pezzo che abbiamo letto prima mi ha fatto pensare. Se quando dico “bene” uso un nome allora quello che fa differenza tra un amore finto e uno vero sono le cose che facciamo. Se invece fosse un avverbio sarebbe meglio. La differenza sta nel modo con cui le facciamo». Giovanni in italiano ha 8 e in matematica viaggia sul 6, che strano! Ma la cosa strana è che un testo tratto da un libro che parla del senso dell’amore in sant’Agostino riesca a far pensare un adolescente di oggi che passa il pomeriggio allo skate-park. Eppure succede. E la riflessione di Giovanni, fatta ovviamente come spesso accade in un interstizio del vero tempo scuola, ha del sugo.

 Dicotomia tra forma e contenuto

E mentre ascolto quasi incredulo le parole di Giovanni mi viene in mente il famoso «vi riconosceranno da come vi amerete». E la domanda di Giovanni rimbalza dentro di me: Gesù Cristo è un nome o un avverbio? L’essenza del suo messaggio si condensa in un modo di fare o in certe cose da fare? La questione non è nuova. Già a proposito del senso del peccato la teologia ha visto da tempo che si può dire “non volere bene” intendendo non volere il giusto oggetto di bene che la nostra natura prevede che ricerchiamo (peccato come testo, come contenuto), ma anche si può dire non volere bene nel senso che il nostro volere si muove secondo dei modi, delle forme, che la nostra condizione creaturale non prevede di avere (peccato come contesto, come modo d’essere).
Credo che, in radice, Gesù Cristo sia entrambe le cose. Sia un nome che un avverbio. Ma oggi, provenendo da secoli in cui abbiamo sottolineato solo che è un nome, un contenuto di fede, diventa necessario ricordarci l’altro lato, un modo di credere e di amare. Una necessità questa, richiamata dal cambio culturale in cui siamo, che tende sempre più a invertire il rapporto tra testo e contesto, tra forma e contenuto, ritenendo la prima più importante del secondo. Ma una necessità che, soprattutto, è fondata su un dato evangelico e teologico molto chiaro. L’episodio dell’obolo della vedova (Mc 12, 41-44), il modo con cui il cristiano prega e fa la carità (Mt 6, 1-6), la definizione del credente rispetto ai pagani (Gv 13, 34-35) sono solo alcuni esempi di pagine evangeliche in cui il “come” dell’essere cristiano prevale sul “cosa” va fatto.
Ma ancora prima, nell’Antico Testamento, all’origine della nostra condizione umana attuale si vede bene come il peccato è più una forma che un contenuto. Su cosa fa leva il serpente per sedurre Eva e indurla al peccato originale? Non cerca tanto di prospettarle il raggiungimento di un bene diverso o migliore rispetto a Dio (un contenuto diverso), ma piuttosto di appoggiare la sua azione tentatrice proprio sulla possibilità di raggiungere quel bene che è Dio: «Diventerete come lui». E questo desiderio è insito nella natura umana fin dal principio: l’uomo è fatto «a sua immagine e somiglianza». Perciò il serpente compie un’opera tentatrice proprio perché induce Eva a raggiungere quello che la sua stessa natura di persona umana le faceva sentire profondamente come legittima aspirazione: essere come Dio. Quindi Eva non percepisce la tentazione del serpente come qualcosa che la fa uscire fuori dalla sua istintiva inclinazione alla relazione totale con Dio.

Nel piano originario, Dio vuole donarsi a noi totalmente per far sì che Egli sia tutto in tutti. Nella azione del peccato originale Eva tenta di prendere Dio per sé, per averlo compiutamente per sé, senza aspettare che sia Lui a donarsi. La peccaminosità dell’atto sta nel modo con cui Eva si rapporta con il proprio desiderio legittimo di essere come Dio. Il peccato originale perciò non si configura come un non volere Dio come proprio bene, bensì come volere Dio come proprio bene, ma attraverso una volontà che non si muove in modo rispettoso della natura di questo rapporto, in cui l’uomo cerca di “prendere” Dio per sé, con le sue sole forze.

 Coi piedi per terra

Dio è per essenza infinitamente superiore all’uomo e qualsiasi tentativo di afferrarlo per essere come lui è destinato al fallimento. E la conseguenza è che, invece di essere come Dio, la coppia, aprendo gli occhi, si accorge di essere nuda, cioè vede e sente il proprio essere come limitato, sperimenta l’impotenza a dare compimento al suo desiderio di essere Dio. Perciò manca della bellezza con cui era stato creato, e per questo si nasconde.
Se questo è vero, allora credo che oggi la post-modernità ci spinga ad essere un po’ più coerenti con la Bibbia. Ciò che spesso infatti non rende percepibile la bellezza del messaggio cristiano è che viene raccontato, su questo punto, come se fosse uguale a tutte le altre religioni salvifiche, da cui si differenzia per il contenuto, ma di cui ha le stesse forme. Cioè che attraverso uno sforzo umano, fatto secondo certe regole, e fidandosi di certi assunti teorici, l’uomo possa raggiungere la salvezza. La post-modernità è molto “scafata” su questo e sa bene che questa è solo una illusione. Perciò non ci può credere.
Il cristianesimo invece non è uno sforzo. È un regalo. A noi viene chiesto di lasciarlo agire dentro di noi. E la prima cosa da fare perciò è proprio smettere di sforzarci per afferrare Dio, smettere di volerlo prendere noi, con le nostre forze. Metterci tranquilli e coltivare la nostra relazione personale con Dio, senza la pretesa di salvarci. «Chi perderà la sua vita per causa mia e del Vangelo la troverà». È un modo diverso di stare al mondo, in cui l’uomo affida la sua salvezza davvero a Dio. E paradossalmente è proprio di questo che la condizione post-moderna ha un bisogno estremo, anche se non lo ammette: ridare a Dio il suo ruolo di salvatore e rimettere l’uomo coi piedi per terra, consapevole dei suoi limiti.