Non dar da bere agli ignoranti

Nuove opere di misericordia per giornalisti cristiani senza verità in tasca

 di Guido Mocellin
direttore editoriale della EMI (Editrice Missionaria Italiana)

 
La professione come servizio

Anni fa una laureanda in Scienze della comunicazione (oggi è una cara collega), impegnata a livello ecclesiale, mi intervistò per completare la sua tesi di laurea. Era dedicata a come i media avevano raccontato la morte di Giovanni Paolo II, ma il discorso ben presto si allargò all'informazione religiosa, e all'informazione in generale. Fu allora che mi chiese in che rapporto stavano, secondo me, l'essere giornalisti e l'essere cristiani, e che cosa veniva prima.


Le risposi con una certa sicurezza che il dovere di un cristiano giornalista è fare bene il giornalista. Dove naturalmente tutto è racchiuso il quel “bene”: che intendo nel senso di considerare questa professione un servizio pubblico e di esercitarla nel ferreo rispetto della deontologia professionale (che non descrive il massimo, ma il minimo della correttezza che si deve avere) anche quando ciò va a discapito delle vendite e degli introiti pubblicitari del “medium” per il quale si lavora. E poi nel senso di cercare la verità (con la lettera minuscola: quella che riteniamo di aver acquisito limitatamente alle fonti che siamo riusciti a esplorare) e rifuggire la menzogna (anche quella che appare innocente, come nell'infotainment) e di stare dalla parte delle vittime: non ho mai dimenticato la sottolineatura di un affermato collega inglese, Austen Ivereigh, secondo il quale sono questi ultimi due aspetti che rendono più prossimi gli uni all'altra i mass media e la Chiesa.
Tutto ciò, per un cristiano, sarebbe (relativamente) facile da mettere in pratica. E se il caso della “paleotv” (cioè, in Italia, della Rai prima della riforma) ne è stato un esempio brillantissimo ma irripetibile, credo che ci si possa riuscire anche oggi, pur mettendo nel conto qualche rinuncia; conosco tanti che ci provano. A patto di non doversi occupare di Chiesa. Perché invece, se si fa o si cerca di fare il “giornalista religioso”, le cose, paradossalmente si complicano.
Difatti le difficoltà della Chiesa, segnatamente della Chiesa cattolica, a rapportarsi all'età secolare, si riflettono nelle sue difficoltà a rapportarsi al sistema dei media, che di tale età è uno dei luoghi più tipici. Non sto parlando dell'utilizzo dei singoli strumenti della comunicazione sociale, che anzi hanno spesso avuto negli uomini di fede e di Chiesa degli autentici pionieri. Mi riferisco piuttosto alla capacità di “stare in pubblico” secondo le regole che i media impongono, e che sono intrise della cultura della laicità, anche quando non esercitano dei pregiudizi anticlericali, tuttora vivi, talora fondati. 

Il dovere dell’obiettività

A tale suo limite, che risente di un passato di scontri aspri, spesso la Chiesa ha la tentazione di far fronte immaginando che tocchi ai cristiani giornalisti, come se fossero degli inviati in partibus infidelium, “difenderla” dagli “attacchi” che i media stessi periodicamente le rivolgerebbero. C'è tutto un filone di giornalismo cattolico contemporaneo che si riconosce in questo compito “neoapologetico”. Ma assumendolo, cioè immaginando che, poiché si è impegnati in una guerra, per quanto culturale, tutti i mezzi siano leciti per difendersi e anche per attaccare, si viene meno al dovere di obiettività che incombe al giornalista, né più né meno del cronista sportivo che parteggia apertamente per la squadra della sua città, o del cronista economico che, divulgando una notizia, favorisce un'impresa a danno di un'altra.
Mi pare in ogni caso che valga per ogni giornalista cristiano, che si scriva di Chiesa o di musica o di politica, il modello laico proposto da papa Francesco. Che incontrando i giornalisti accreditati a Roma subito dopo la sua elezione, ringraziò in particolare quanti avevano “saputo osservare e presentare questi eventi della storia della Chiesa tenendo conto della prospettiva più giusta in cui devono essere letti, quella della fede”. E che nel suo primo messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali, quello pubblicato il 24 gennaio 2014, si è ispirato all'icona evangelica del buon samaritano: “La nostra comunicazione sia olio profumato per il dolore e vino buono per l’allegria. La nostra luminosità non provenga da trucchi o effetti speciali, ma dal nostro farci prossimo di chi incontriamo ferito lungo il cammino, con amore, con tenerezza”.

Questo dovere di prossimità nella comunicazione dei cristiani appare tanto più chiaro quanto più ci si sposta – lo fa lo stesso Francesco, nel messaggio – dai media tradizionali ai media digitali. Infatti uno degli aspetti che caratterizzano questi ultimi è la disintermediazione, cioè la tendenziale scomparsa della distinzione tra il comunicatore professionale e quello, diciamo così, occasionale, che un tempo prendeva la parola solo nelle rubriche delle lettere, o alla fine dei convegni (sempre bacchettato dai moderatori: “non faccia una conferenza, si limiti a una domanda...). E che oggi, invece, interloquisce con chiunque e senza alcun senso di inferiorità o deferenza, anzi... Bisogna allora che ciascuno di noi, a maggior ragione se cerca di vivere il Vangelo, e di viverlo anche in Rete, si interroghi sullo stile cristiano della sua attività digitale di “utente” e “generatore di contenuti”. 

Opere di misericordia digitale

Vari blogger “di ispirazione cristiana” si sono misurati, anche con fatica, con la contraddizione di un modo antievangelico di stare in Rete assunto proprio in nome della propria fede. Il quotidiano Avvenire ha recentemente proposto un “Galateo social”: «Ci interessano le vostre opinioni, ma gli scontri sterili, gli insulti gratuiti e i toni accesi invece che arricchirlo soffocano il confronto». Segue una ferma promessa di rimozione di qualsiasi contenuto che non aiuti “a far crescere la comunità Facebook di Avvenire nel rispetto di tutti”.
Dal canto mio, visto che siamo nell'anno della misericordia, ho proposto, scherzando ma non del tutto, sette opere di misericordia digitale. 1) Non dar da mangiare delle bufale: cioè non condividere acriticamente qualunque contenuto, verificandone piuttosto la fondatezza. 2) Non dar da bere agli ignoranti: ovvero non approfittare della minore attrezzatura culturale di chi ci legge. 3) Sopportare pazientemente gli ignudi/le ignude: non nutrire la morbosità di quei contenuti che la Rete pure predilige. 4) Perdonare i dubbiosi: sapere che il solo fatto che una cosa la diciamo noi non la rende automaticamente vera agli occhi altrui. 5) Seppellire di oblìo le offese: non praticare, pur se violentemente attaccati, l'"occhio per occhio", anche le nostre parole sono pietre. 6) Visitare (le pagine de) le persone moleste: cercare di comprendere le ragioni interne dei più lontani dalle nostre. 7) Pregare Dio per chi "mi piace" e per chi "non mi piace più": il sole non sorge solo su chi ha il nostro consenso o ci manifesta il suo. Spero che, oltre a un sorriso, inducano qualche buon proposito.

Dell’Autore segnaliamo la rubrica WikiChiesa su Avvenire