Da uomo a uomo vero

Tratti di un percorso di cambiamento che parte da oggi 

di Fabrizio Zaccarini
vicemaestro dei postulanti cappuccini a Lendinara

 La ricerca di uno stile

Vi complicherò la digestione, lo so, ma voi che siete buoni non me ne vorrete. Il fatto è che per introdurre il discorso non so trovare di meglio che mescolare suggestioni derivanti da due teologi tosti. Uno, Romano Guardini, pregava, studiava e insegnava in Germania in preparazione del concilio Vaticano II; l’altro, Christoph Theobald, fa altrettanto oggi perché la Chiesa cammini sulla via tracciata nello Spirito dallo stesso Concilio.


Così, io, da nano su spalle di giganti, dico: ha stile chi dà coerente espressione alla propria irripetibilità senza lasciarsi andare a capricci arbitrari; chi si relaziona con la vita nella sua universalità e difende fino alla fine la sua decisione di essere ospitale con altri da sé; chi impara da chiunque senza preclusioni di sorta; questi, lo ripeto, ha stile e, precisamente, lo stile di Cristo.
A qualcuno potrà sembrare strano (o addirittura blasfemo?) avvicinare cristianesimo e stile, quasi si volesse trascinare la stoltezza della fede nel messia crocifisso fino al prêt-à-porter degli stilisti e ingabbiare la gloria del risorto nella modaiola e anoressica evanescenza dei calciatori e delle loro partner cangianti. Detto tra parentesi: sembra improbabile che questa compagnia dispiaccia troppo a Gesù, abituato com’è, nonostante le accuse d’essere mangione e beone, a condividere pane e companatico con prostitute e pubblicani. Ma se papa Francesco, sognando e lottando coraggiosamente e coerentemente per una chiesa “in uscita”, concentra gran parte delle sue scelte personali e di ministero ecclesiale proprio intorno alla ricerca di uno stile cristiano, conforme a quello che Cristo ha vissuto, evidentemente vale la pena tentarne una sommaria descrizione. 

Tratti fondamentali

Tratto primo: nonviolenza. Senza nonviolenza lo stile di Cristo non sussiste; bisogna però intendersi bene. Gesù non pratica alcun esercizio di atarassia, cioè di rifiuto di quelle passioni che muovono e turbano l’interiorità dell’uomo, anzi! Egli è un uomo appassionato, che accoglie ciò che sente nell’intimo e non teme affatto di manifestarlo esteriormente. Piange visibilmente la morte dell’amico Lazzaro; si commuove per la folla che paragona a pecore senza pastore e chiede ai discepoli di dare loro stessi da mangiare a tutta quella gente; nell’orto degli ulivi chiede a tre discepoli prescelti di vegliare con lui, si meraviglia dell’invincibile pesantezza del loro sonno, poi, triste fino alla morte, suda sangue e, schiacciato dalla paura, aderisce alla debole nudità della terra; morirà gridando: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?».
Il suo immaginario è ricco di elementi innovativi ed intensamente evocativi; la sua emotività è radicalmente corposa e dinamica. In termini gandhiani, la sua è la nonviolenza del forte che, tutt’altro che neutrale, si mette in mezzo tra oppresso ed oppressore. Difende i diritti del povero, attacca la paralizzante ipocrisia dei farisei impegnati nella fallimentare impresa della loro auto-redenzione; smaschera il potere iniquo, fondato sulla paura altrui. Con tutto ciò, la sua intenzione di amare i nemici ha un posto fermo nella sua vita, è più forte di ogni emozione. Quando Pietro colpisce all’orecchio una delle guardie venute per arrestare Gesù, egli chiede a Pietro di rimettere la spada nel fodero «perché chi ferisce di spada, di spada perisce». Al processo Gesù chiede al soldato che l’aveva colpito sulla guancia: «se ho parlato male dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene perché mi percuoti?». Non reagisce con violenza alla violenza, ma, d’altra parte, non subisce passivamente la violenza ingiusta.
Tratto secondo: relazione. Gesù non scrive nulla, la sua parola presuppone l’interazione faccia a faccia e attraversa i secoli grazie alla mediazione testimoniale dei suoi discepoli che assumerà poi anche la fisonomia della parola scritta. Gesù racconta parabole provocatorie che invitano a rovesciare come un guanto la propria vita, ma riconosce agli interlocutori il diritto e la responsabilità di reagire come vogliono: «chi ha orecchi ascolti». «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele», aveva detto, e «non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini», ma la donna siro-fenicia, forte del coraggio delle madri con un figlio in difficoltà, non si arrende: «eppure i cagnolini si nutrono delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Se Gesù aveva provocatoriamente tracciato il confine della sua missione salvifica, così, di fatto, ella lo viola. Il vero colpo di scena però, è che il maestro umilmente ora si fa discepolo della donna pagana, benedice la violazione da lei rischiata, libera la figlia dall’alienazione demoniaca e dice: «donna, grande è la tua fede!». Il maestro impara imprevedibilmente dalla donna pagana la misura dilatata di salvezza che il Padre gli chiede di operare.
Tratto terzo: misericordia. La misericordia è, per così dire, il metastile, il tratto capace di abbracciare l’intera missione e prassi messianica di Gesù. Egli sa riconoscere il limite condizionante del passato, non condanna il presente alla prigionia coatta dello schema già preconfezionato, apre alla novità inedita del futuro. Gesù non dichiara innocente la donna sorpresa in flagrante adulterio, né giustifica ciò che non è né giusto né innocente; d’altra parte non rinchiude la donna nel limite soffocante del peccato commesso. Apre alla possibilità di un cammino nuovo, della conversione. Alla base del suo agire sembra stare incrollabile la fiducia nella capacità umana, per quanto macchiata e indebolita, di riconoscere e di volere ciò che è buono. Del passato di peccato di quella donna, Gesù non dice nulla, egli è tutto concentrato sul futuro: va’, cioè cammina responsabilmente per la tua strada, e d’ora in poi, da oggi, non da domani, non peccare più, inizia una storia diversa, volta pagina, non ripetere più il solito copione che altri ti hanno consegnato o, forse, addirittura imposto. Il discorso di Gesù allude al peccato commesso, ma egli è così rispettoso verso la donna, che non lo nomina direttamente. Per quella donna essere accolta con questa delicatezza, dev’essere stato un vero e proprio shock di rigenerante consolazione.
Lo stile di Gesù provoca dunque la chiesa: a non essere deboli con i forti e forte con i deboli, a rischio di perdere posizioni di prestigio o di privilegio (del resto non diciamo di essere discepoli di uno che su queste cose si è giocato la sua stessa vita?); ad ascoltare e imparare chi abita oltre i nostri confini identitari; a non inchiodare nessuno al suo peccato, ma a promuovere in ciascuno il desiderio di crescita e di cambiamento. Lo stile di Gesù ci provoca ad assumere davvero la nostra identità di figli amati nel Figlio, chiamati ad agire a favore di una umanizzazione del mondo. È quello che desideriamo tutti, ma, intanto, lavorare per questo non ha già il profumo della meta?