Uno solo è il maestro

Gesù e i discepoli nel vangelo di Matteo

di Rinaldo Fabris
biblista

Nella tradizione evangelica Gesù è conosciuto e chiamato “maestro”. I discepoli e gli altri si rivolgono a Gesù con il vocativo didáskale, “maestro”, usato come appellativo di onore o di cortesia. In alcuni casi didáskalos e kýrios, “maestro” e “signore-padrone”, si equivalgono. Nel vangelo di Matteo ricorre anche l’appellativo ebraico rabbî, che corrisponde al greco didáskalos, “maestro” (cf. Mt 26,25.49).


In una sentenza di Gesù, riferita nel vangelo di Matteo, è evidente il parallelismo tra ho didáskalos e ho kýrios, “il Signore”. Nel discorso ai Dodici, inviati in missione, Gesù fa intravedere quali saranno le resistenze e le opposizioni al loro annuncio e alla loro testimonianza. Ma essi non devono scoraggiarsi, perché «un discepolo non è più grande del maestro, né un servo è più grande del suo signore; è sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro e per il servo come il suo signore». Lo stile di vita del maestro, contestato e rifiutato per le sue scelte coraggiose al servizio del regno di Dio, traccia il percorso al discepolo: «Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia!» (Mt 10,24-25).

Un maestro autorevole che rivela la volontà Dio

L’autore del vangelo di Matteo accentua il ruolo autorevole di Gesù, rivelatore della volontà di Dio Padre. Matteo ne raccoglie l’insegnamento in cinque “discorsi” che formano una specie di “Pentateuco cristiano”. Nel primo discorso - “Discorso del monte” - Gesù traccia un programma di vita per i discepoli, chiamati ad essere «sale della terra» e «luce del mondo». Con il loro stile di vita - “opere buone” - essi rivelano la gloria del Padre che è nei cieli (Mt 5,13-16). Alla fine i discepoli sono inviati dal Signore risorto a “fare discepoli” tutti i popoli insegnando loro ad osservare tutto ciò che egli ha comandato (Mt 28,19).
Gesù non è venuto ad abolire le Legge, ma a darle pieno compimento, rivelandone le esigenze profonde, concentrate nell’amore del prossimo (Mt 5,17; 7,12 ; cf. Mt 22,34-40). Gesù proclama il valore permanente della Legge come volontà di Dio anche nelle più minute espressioni della Scrittura (Mt 5,18-19). Perciò richiede ai discepoli l’attuazione della “giustizia sovrabbondante”, come condizione per entrare nel regno dei cieli (Mt 5,20). Propone sei esempi di “compimento” della Legge nella forma di “antitesi”: «Avete inteso che fu detto agli antichi... ma io vi dico» (Mt 5,21-47). Invita i discepoli ad essere “perfetti” nell’amore come è perfetto il Padre celeste, che comunica i suoi doni a tutti, buoni e cattivi, senza discriminazione (Mt 5,48). Chi vuole essere “perfetto” deve seguire Gesù che rivela il volto di Dio, l’unico “buono” nella condivisione dei propri beni con i poveri (Mt 19,16-22).

Un unico maestro

Nell’ultimo discorso Gesù si rivolge alla «folla e ai suoi discepoli», come nel primo discorso sul monte, per metterli in guardia nei confronti degli scribi e dei farisei che “siedono sulla cattedra di Mosè”. Mentre ne riconosce l’autorità di maestri interpreti della Legge, ne denuncia l’incoerenza - «dicono e non fanno» - e l’ipocrisia: «Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini» (Mt 23,1-7). Questa denuncia, modellata sullo stile dei profeti di Israele, non si rivolge solo contro i capi di Israele, che hanno fatto deviare il popolo, ma alla comunità cristiana e ai suoi capi, che rischiano di vivere le stesse incoerenze e di riprodurre le forme di ipocrisia degli scribi e farisei.
Mentre i maestri ebrei ricercano i segni di prestigio e di onore «come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente», Gesù dice ai discepoli: «Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo» (Mt 23,7-10). La figura del “maestro” coincide con quello della “guida” che interpreta la Scrittura - Toràh - e traccia in modo autorevole la via da seguire. Solo nel vangelo di Matteo si trova questa istruzione ai discepoli che sembra escludere ogni autorità e magistero diversi da quelli del Padre celeste e di Gesù Cristo. Però, nello stesso vangelo di Matteo, a Simon Pietro, che lo riconosce «Cristo, il Figlio del Dio vivente», grazie alla rivelazione del Padre che è nei cieli, Gesù promette che sarà ratificato in cielo quello che egli decide sulla terra (Mt 16,16-19). Lo stesso potere è dato alla comunità dei discepoli per accogliere o escludere il fratello deviante (Mt 18,18).

I discepoli compiono la volontà del Padre

I discepoli di Gesù s’impegnano a fare la volontà del Padre che Gesù rivela con le sue parole e scelte di vita. Pregano il Padre con la fiducia e la libertà dei figli. Devono scegliere tra Dio e mammona (il dio-denaro-potere). Riconoscendo che il Padre è il creatore, fonte di tutti i beni indispensabili per vivere, sono liberi dalle preoccupazioni quotidiane; cercano come bene unico e primario il regno di Dio e la sua giustizia (Mt 6,25-33). In breve i discepoli di Gesù costruiscono la loro esistenza sull’ascolto sapiente della parola di Dio Padre, rivelata da Gesù Cristo (Mt 7,24-27).
Gesù riconosce che Dio Padre, creatore dell’universo e Signore della storia, ha scelto i “piccoli” - i discepoli - come destinatari della sua azione benefica. Egli perciò li invita a condividere il suo stile di vita - «mite e umile di cuore» - per avere la libertà e la pace (Mt 11,25-30). I discepoli che compiono la volontà del Padre formano la sua vera famiglia, sono per lui «fratello, sorella e madre» (Mt 12,46-50).
Sulla base del vangelo di Marco e della tradizione in comune con Luca, Matteo fa una raccolta di sette parabole sull’agire sovrano di Dio o il regno dei cieli (Mt 13,1-53). Dopo il racconto della parabola del seminatore, nel dialogo con i discepoli Gesù dichiara che Dio Padre fa conoscere loro «i misteri del regno dei cieli», il suo disegno di salvezza (Mt 13,11; cf. 11,25-27). Egli li proclama “beati” perché grazie al suo insegnamento sono resi partecipi della salvezza messianica (Mt 13,16-17). Alla fine, in un breve dialogo, Gesù conferma che i discepoli possono “comprendere” le parabole del regno dei cieli se accolgono e mettono in pratica la sua parola. In breve, i discepoli sono il prototipo-modello dei cristiani che riconoscono e proclamano Gesù Cristo Signore.