Una nuova casa comune

Dalla realtà di abbandono alla ricerca di un mondo di significato e valore

di Maria Teresa Moscato
docente di Pedagogia all’Università degli Studi di Bologna

La “naturalezza” del nulla

È oggi diffusa un’ambigua rappresentazione sociale, secondo cui l’educazione migliore sarebbe quella più “naturale” e spontanea (cioè quella che meno “governa” e “contiene” il bambino). Ciò porta molti genitori bene intenzionati, e convinti di stimolare così creatività ed autonomia precoce nei loro bambini, ad autentiche forme di “abbandono” educativo: non danno regole di condotta su nessun elemento della quotidianità, non criticano o puniscono, con ragionevoli argomentazioni, alcuna condotta infantile (al massimo se ne lamentano).
Così, il fatto che il figlio abbia mangiato nell’arco del pomeriggio l’intero pacco scorta delle merendine appare oggetto di recriminazione materna solo nella misura in cui queste “sono finite”, ma il problema non è mai collocato all’interno di una condotta alimentare da promuovere, che sia agita secondo ragionevolezza, e con adeguata percezione sociale della presenza degli altri membri della famiglia. I bambini oggi mangiano in solitudine, per noia, senza neppure accorgersene, per stimolazione occasionale (so che questo è vero purtroppo anche per molti adulti).
È generico affermare che i bambini siano “golosi”: il problema, per il quale si saccheggia il frigorifero di casa propria e/o si deruba il compagno della sua merendina, ha origine da un insufficiente autocontrollo, da una incapacità di riconoscere la necessità di una regola, qualunque essa sia, a cui orientare una condotta deliberata. In assenza di tale percezione, non si può neppure affermare che i bambini “trasgrediscano” le regole, dal momento che essi non hanno idea della loro esistenza. Non si comprende però che la possibilità adulta di sviluppare una progressiva autonomia di condotta, in termini etici, politici, religiosi, dipende di fatto dalla costruzione dell’apparato psichico dell’Io nel corso dell’età evolutiva, e non solo nei suoi aspetti cognitivi, ma soprattutto in quelli sociali ed affettivi. Nell’adolescenza, soprattutto in presenza di fenomeni di bullismo, si osserva una estrema fragilità affettiva («avrei bisogno di tutto l’amore del mondo»), insieme ad una sostanziale incapacità di percepire la sofferenza della vittima, di identificarsi con altri, inclusi i propri genitori, da cui si dipende affettivamente senza per questo essere capaci di mostrare ed esprimere affetto.
In sostanza, si lasciano “liberi” bambini e ragazzi di agire dei comportamenti sociali, e in particolare affettivi e sessuali, considerati “spontanei”, ma che un tempo si consideravano espressioni di una condotta adulta, perché si è persa la consapevolezza che tali comportamenti “spontanei” esigano in realtà una educazione remota e specifica.

Bisogno di esperienza concreta

La diffusione delle realtà virtuali costituisce una novità radicale nella storia umana. Oggi può accadere che sia l’orizzonte mediatico a conferire significato alle relazioni familiari, e comunque ai gruppi primari di appartenenza: anche la scuola quindi, e gli ambiti ecclesiali, vengono ridefiniti da fiction accattivanti, da una martellante pubblicità in “oggetti del desiderio” (da vetture sportive a merendine e cioccolatini), presentati come “passioni” umane, determinano condotte, fra i protagonisti dello spot, che sarebbe poco definire “infantili” (il matrimonio garantito o messo in crisi dalla disponibilità di cioccolatini al liquore?). Tutti i messaggi sono comunque “infantilizzanti”, anche quando non decisamente “cattivi”: si pensi allo spot a cartoni animati del messaggio d’amore spedito da una principessa prigioniera, con la complicità di un magico rotolo di carta igienica, e nel quale il principe getta nel fuoco il messaggio e si “innamora” della morbidezza del rotolo di carta igienica, in compagnia del quale si allontana.
Dietro la sua apparente immediatezza e concretezza (vedo, sento, interagisco) la virtualità è anche una falsificazione dell’esperienza concreta. Essa sembra eliminare la solitudine, fornendo un illusorio senso di dialogo e di compagnia, dialogo che però i giovani soggetti non sembrano più capaci di sperimentare in presenza fisica. Questi elementi ci pongono di fronte a generazioni infantili che hanno stili cognitivi e dinamismi emozionali apparentemente diversi da quelli delle generazioni precedenti, e quindi, presumibilmente, anche bisogni educativi diversi. Intendo dire che, ad esempio, si incontrano bambini incapaci di organizzarsi spontaneamente in un gioco sociale.

Una nuova attenzione pedagogica

In questo quadro, che cosa può significare per noi oggi “rinnovare” l’iniziazione cristiana? Oggi riceviamo molto spesso in parrocchia per la catechesi bambini le cui famiglie non praticano alcuna religione, e non hanno fornito alcuna istruzione religiosa neppur minima: né una preghiera elementare, né una storia biblica o una parabola, né un segno di croce.
Questi bambini presentano effettivamente bisogni educativi diversi (e tendenzialmente ampliati) rispetto alle più comuni esperienze della generazione oggi adulta. Sembrano incapaci di gioco sociale, di creatività manuale, di corporeità intelligente e armonica, di realismo, di senso etico, di contenimento a tutti i livelli. Per l’opera educativa da ricominciare sempre, oggi dovremmo in primo luogo sensibilizzare la generazione giovane, renderla capace di pensarsi con una responsabilità educativa in tutti gli ambiti in cui incontrerà bambini e adolescenti. Per primi i giovani catechisti e animatori parrocchiali devono essere richiamati ad una più profonda comprensione dei loro effettivi percorsi educativi e dei loro presumibili bisogni personali.
Bisognerebbe che ogni bambino che accede al catechismo in parrocchia percepisse di avere incontrato lì una nuova «casa comune», una comunità concreta di appartenenza possibile, di adulti e di giovani e di adolescenti, uno spazio educativo che gli si offre con disponibilità reale.
Non è di immediata comprensione il fatto che oggi la più elementare delle catechesi religiose può offrire un supporto educativo essenziale per soggetti tanto giovani, dal momento che tali nuove generazioni appaiono di fatto abbandonate a se stesse, rispetto al mondo del significato e del valore. Bisogna perciò formare i catechisti e gli educatori parrocchiali con una nuova attenzione pedagogica, e non solo teologica, per aiutarli a percepire e a rispondere agli effettivi bisogni educativi che i bambini presentano oggi o potrebbero presentare in termini crescenti.

Dell’Autrice segnaliamo:

Diventare Insegnanti. Verso una teoria pedagogica dell’insegnamento

La Scuola, Brescia 2008, pp. 288