Pizza connection

Non sempre i poveri sono simpatici, ma aiutarli ci fa stare meglio 

di Alessandro Casadio
della Redazione di MC 

Questione di pecore e di lana

Casadio 01Imelde Di Paolo non era portata per gli studi. Aveva superato a fatica, a suo tempo, la seconda elementare ed era stata subito posta, dai suoi, di fronte all’atavico dilemma: o mettersi sui libri con risultati maggiormente proficui o lasciare perdere e andare dietro alle pecore.

Così i pascoli dell’Abruzzo meridionale avevano visto crescere di un’unità il numero della manodopera pastorizia del proprio territorio e la piccola pastorella aveva visto incrementare di qualche lira il proprio gruzzolo, quello concessole da un padre un po’ padrone, rosicato dalla miseria di salario elargita dal padrone del padre padrone.
Ma stavano per arrivare gli anni del boom economico, per l’Italia, e le occasioni sembravano moltiplicarsi anche per chi con le moltiplicazioni non era in gran familiarità. Così Imelde, ormai ventenne, fu invitata da una zia, da tempo emigrata al nord a seguito del marito, a raggiungerla nella rossa Emilia-Romagna, dove fu assunta come operaia in un maglificio. Dalle pecore alla lana sembrò un passaggio di vita logico e provvidenziale, che permise alla giovane di aprire addirittura un conto corrente. Purtroppo, la sua attitudine alla subalternità, unita all’assoluta mancanza di un’emancipazione culturale, la manteneva estranea ai centri di sviluppo della vita e della ricerca esistenziale, per non dire che Imelde appariva, a chi la incontrasse, un po’ svitata e, di sicuro, un po’ in ritardo sulla possibilità di apprendimento medio dell’intelligenza umana.
La campagna di Casola Canina dove andò a rifugiarsi, giovane sposa del locale campanaro, noto a tutti per il suo umore burbero, rappresentò un utile cuscinetto di protezione tra la sua logica e quella del mondo esterno. Si sarebbe detto, anzi, che dei due quella maggiormente socievole era proprio lei, che lavorava lontano e parlava in continuazione ad alta voce, anche se da sola. Per Imelde, questo suo continuo sproloquiare era un metodo di autocontrollo delle sue innumerevoli insicurezze oltre a un modo, credeva lei, per esternare una perenne lamentela sulla vita che le era toccata e attirare su di sé la misericordia di Dio e dell’umanità.

Io non ce la faccio più

La vita, si sa, comprende alti e bassi, anche se, talvolta, quelli che al momento ti appaiono tempi bui, nello sviluppo degli eventi, finiscono col diventare quelli migliori. Il maglificio dove Imelde lavorava perse diverse commende estere e fu costretto ad una riduzione drastica del personale. La situazione fu risolta con un prepensionamento, che le assicurava una micropensione. Concomitantemente il podere lavorato dal marito con un fittizio (inesistente) contratto a mezzadria fu venduto dal proprietario al comune per una nuova lottizzazione abitativa e la famigliola - che nel frattempo aveva cambiato casa, dirottando verso un condominio di edilizia popolare, e si era dotata di una figlia che, per scherzo della natura, era carina e perfettamente normale - fu messa alle corde. Da quell’istante in poi, cominciò per Imelde il periodo ossessivo, nel quale lei incessantemente ripeteva una litania, abbinandola a qualsiasi altra affermazione contingente, sia che fosse riferita al caldo o al freddo, al caro-prezzi, alle spese condominiali, alla neve che non c’era più, alla pioggia che c’era troppo, ai comunisti o ai Grattaevinci che non vincevano ma: - Io non ce la faccio più, non ce la faccio più! -, biascicando le parole, quasi piangendo, in una sorta di gemito più irritante che miserevole.
Come uno stalker metodico e asfissiante, utilizzava qualsiasi pretesto per piombare in casa dei vicini, nelle ore di massimo disagio, implorando aiuto per l’interpretazione di una bolletta non pagata o dell’ennesima missiva, a dir suo inspiegabile, anche perché la busta della stessa non era mai stata aperta. Per i più, rappresentava un sommo tormento, a cui cercavano di far fronte rapidamente con sintetiche risoluzioni dei falsi problemi; altri, più abili a scansarne le traiettorie, si cimentavano in battute di basso livello, prendendola in giro, con duplice esito: se Imelde capiva la battuta, reiterava le lamentazioni moltiplicandole; se non la capiva, liquidava la faccenda con un generico: - Te dici, te dici, ma io non ce la faccio più! -.

Casadio 02L’arma segreta

È intuibile come Imelde fosse considerata da tutti una mastodontica pizza, con tanto di mozzarella appiccicosa che non riuscivi a levarti di dosso. Il destino, nel frattempo, stava finalmente adoperandosi per giustificare almeno parte delle iatture di cui esageratamente si lamentava. La figlia, appena maggiorenne, si era affrancata dalla famiglia, sposando un coltivatore diretto e concedendo ai genitori solo una breve visita settimanale. Il marito era stato colpito da un ictus e aveva dovuto rinunciare a buona parte delle sue facoltà mnemoniche, venendo recuperato saltuariamente, in qualche panchina del quartiere, quando piangeva per essersi perso. Sembrava che perfino la vita si fosse stancata di lei, inanellando una serie di piccole sciagure sul suo percorso esistenziale (perdita dell’unico mazzo di chiavi di casa esistente, cartelle del Bingo non vidimate prima della giocata e, ancora, marito che confondeva il giorno e la notte, usando quest’ultima per depredare il frigorifero di ogni suo bene commestibile).
Ad una situazione economica, che stava lentamente scivolando verso l’indigenza, Imelde opponeva con ottusità la colpevolizzazione degli organi sociali che avrebbero potuto aiutarla, facendosi oggettivamente detestare da assistenti sociali, impiegati bancari e dei patronati, commesse del supermercato da cui pretendeva riparazioni del cordless, che non funzionava lontano da casa. Aveva, tuttavia, un’arma segreta: quella di far apparire la propria situazione talmente grave e compromessa che chiunque avesse anche solo mosso un dito in suo favore, sarebbe apparso come un salvatore della patria. Gratificati da cerimoniose manifestazioni di riconoscenza, consapevoli di aver sventato i più terribili strali della fortuna avversa, barbaramente accanita su di lei, si restava con la piacevole sensazione di aver fatto qualcosa di profondamente buono, che rilanciava nel mondo una speranza tangibile sulle sue sorti. Ingenuità imperdonabile, per alcuni aspetti, di cui Imelde, a dispetto della sua precarietà intellettiva, sapeva trarre il massimo profitto.